Usa e terrorismo: la costosa guerra promessa. All’indomani delle devastazioni dell’11/9/2001, l’amministrazione americana si ritrovò a fare i conti con un nemico fino ad allora conosciuto solo a distanza. Archivi informativi stracolmi di notizie frammentarie su personaggi, gruppi e, soprattutto, su misteriosi movimenti di capitali che l’intelligence d’Oltreoceano stentava a ricostruire in un puzzle che potesse rendere realistica e attuabile una reazione concreta, dura e rassicurante per l’opinione pubblica. Le consultazioni frenetiche con i Paesi alleati consentirono di creare una sorta di data base comune nel quale far confluire quanto raccolto dalle varie agenzie d’intelligence nel corso degli anni.
Il quadro era, comunque, sconfortante. Una miriade di sigle che avevano a fattor comune il solo credo islamista radicale ma con obiettivi diversificati e, per lo più, concentrati in Medio Oriente.
In aggiunta, i videomessaggi di minacce da parte degli esponenti di punta di al Qaeda, entità nota come “ufficio di reclutamento dei mujaheddin” all’epoca della guerra russo-afghana, se da una parte avevano creato sconcerto, dall’altra avevano riguardato rivendicazioni su territori così distanti dagli Usa che, sebbene già colpiti in Somalia, Tanzania e Kenya, avevano colpevolmente sottovalutato l’entità del pericolo.
Così, bypassando i consigli di chi il terrorismo lo aveva già vissuto e affrontato nel corso degli anni, da Israele a Italia, dalla Francia alla Germania, sino al Regno Unito, gli Usa fecero ricorso allo strumento a loro più congegnale: la guerra totale.
Sui piani congegnati dal Pentagono pesavano voci, indiscrezioni, notizie gonfiate e false piste che, unite alla fretta di agire, comportarono la messa in atto di strategie improvvisate che, nel corso degli anni hanno condotto a un incremento stratosferico delle spese militari, alla perdita di un non indifferente numero di vite umane, tra militari e civili, alla completa destabilizzazione di intere nazioni oltre che a una decisa recrudescenza del fenomeno che si voleva per l’appunto debellare: il terrorismo di matrice islamista.
Il costo di un fallimento
Per finanziare la guerra al terrore gli Stati Uniti hanno speso finora ben 5900 miliardi di dollari (stima del Watson Institute della Brown University di Providence – Usa) con una decisa lievitazione prevista per i prossimi anni in relazione all’assistenza ai veterani, all’apparato logistico e sugli interessi dei prestiti per finanziare le operazioni belliche.
In testa alla lista dei Paesi per i quali le spese hanno raggiunto numeri da capogiro vi è l’Iraq, dove il risultato della caduta del regime di Saddam ha comportato la completa (ed inutile) destabilizzazione del Paese oltre che l’ascesa dello Stato Islamico iniziatasi con al Zarkawi e proseguita con Abu Bakr al Baghdadi. Proprio la nascita del Califfato nero ha provocato un effetto calamita per estremisti che hanno intrapreso il viaggio (l’hijra) per ricevere addestramento, istruzioni e, soprattutto, esperienza da utilizzare dopo il loro rientro nei Paesi di residenza, quasi sempre quelli europei dove, in più di un’occasione hanno creato cellule dormienti o sono entrati in azione autonomamente come lupi solitari.
Proseguendo nella lettura della “classifica” troviamo l’Afghanistan, dove il risultato della “presunta” uccisione di Oussama bin Laden non ha portato ai benefici anelati, anzi, ad una pericolosa frammentazione dei gruppi terroristici maggiori in entità più ridotte ma assai più difficili da neutralizzare. Con l’aggravante della distruzione di interi territori e lo stillicidio quotidiano di attentati contro le forze occidentali e quelle autoctone.
Scorrendo la lista delle spese sostenute dagli Usa, troviamo traccia di quelle dedicate ad Africa, Europa, Pakistan e Siria, comunque considerevoli anche se decisamente inferiori rispetto ad Iraq ed Afghanistan.
La seconda vita del Califfato
A fronte di questo panorama di per sé già abbastanza desolante, si inserisce il rapporto stilato dall’Onu e presentato il 2 agosto scorso al palazzo di vetro dove viene dipinto uno scenario alquanto preoccupante dei movimenti islamisti a livello globale, che continuano a rappresentare una seria minaccia, evidenziando, altresì che sarebbero circa 30.000 i miliziani che si erano uniti al Califfato di al Baghdadi ritenuti ancora in grado di nuocere.
Secondo gli analisti Onu, questa massa non certo trascurabile, crea seria inquietudine poichè potrebbe portare alla creazione di nuovi brand internazionali o condurre molti “mujaheddin” ad unirsi a quelli pre esistenti ad iniziare da al Qaeda per proseguire con Boko Haram o al Shabab.
Inoltre, non viene escluso che alcuni soggetti dotati di maggior carisma si dedichino alle attività di proselitismo finalizzato alla radicalizzazione di nuovi adepti.
Il rapporto si sofferma oltremodo sul fatto che, nonostante il Califfato sia stato militarmente sconfitto, non sono venuti meno i fattori che ne hanno portato alla nascita.
Altri elementi di preoccupazione riguardano il fenomeno della radicalizzazione in carcere e all’imminente liberazione dei foreign fighter arrestati per i quali nessuna iniziativa è stata intrapresa per una loro incriminazione, detenzione o estradizione.
I Paesi europei segnalano che sono circa 6.000 i miliziani partiti dal Continente per lo Stato islamico. Di questi si calcola che un terzo siano rimasti uccisi, altri 2.000 rientrati in Europa e i rimanenti spostatisi in altre zone di conflitto, dalla Libia al Ciad alla Somalia.
Lo Stato islamico, o quello che ne resta, costituisce comunque ancora una seria minaccia in relazione sia alla comprovata capacità propagandistica, il cosiddetto “Califfato virtuale”, sia per l’accesso a fondi residuali, ma non certo indifferenti, ad un capitale che ammonterebbe ad almeno 50 milioni di dollari, con ampie possibilità di reinvestimento in attività finanziarie o per la riorganizzazione del Network terroristico in chiave operativa con conclamate mire espansionistiche rivolte al continente europeo.
Lo stile israeliano
Insomma, la vendetta americana si è abbattuta più sull’incolpevole popolazione civile che sui veri fautori degli attacchi contro gli Usa, più su interi Paesi che su cellule individuate e selezionate e, conseguentemente, con ritorsioni contro il Continente europeo considerato un obiettivo più vicino ed appetibile piuttosto che il target d’oltreoceano ritenuto più costoso e meno remunerativo.
La riflessione che si impone è quella che porta, a titolo di esempio, sull’atteggiamento assai più ponderato, oltre che più appagante e temibile, che condusse l’allora premier israeliano Golda Meir ad autorizzare la missione “Ira di Dio”, conseguenza diretta della strage degli atleti israeliani massacrati a Monaco durante lo svolgimento delle olimpiadi del 1972.
Sicuramente un’operazione snervante, lunga, estenuante quella condotta dall’intelligence israeliana, ma che portò all’eliminazione fisica di buona parte della leadership e dei favoreggiatori dei principali gruppi terroristici palestinesi, da Settembre Nero all’Olp ad al Fath. Il risultato fu quello di un clima di terrore tra i terroristi stessi che, se è vero che continuarono a colpire in maniera indiscriminata gli interessi ebraici in tutto il mondo, si videro comunque privati delle figure di spicco che avrebbero potuto garantire loro un’unità di intenti ed una logistica assai più radicate e andate perdute con la loro neutralizzazione sino ad oggi.
In seguito Israele consolidò i piani di reazioni “mirate” dopo ogni attacco da parte palestinese, anche in considerazione di essersi ritrovato di fatto “isolato” dal contesto internazionale nel combattere contro nemici che di fatto, a tutt’oggi, lo accerchiano in una morsa a tenaglia da tutti i fronti.
L’invidiabile attività svolta dall’Intelligence israeliana, seguita da azioni contro obiettivi selezionati, ha condotto il Paese a un sistema di prevenzione delle mosse di ogni avversario che ne garantisce un discreto livello di sicurezza ottenuto nel corso degli anni con investimenti sicuramente minori rispetto a quelli della guerra totale combattuta inutilmente dall’alleato statunitense.