Nonostante 5 milioni di firme per revocare l’articolo 50 del Trattato di Lisbona e Theresa May ormai al capolinea con la possibile minaccia di un colpo di stato, la Gran Bretagna vive ancora “tra color che son sospesi”. Alle 23:00 di domenica 24 marzo 2019, 5,3 milioni di persone avevano firmato la petizione che chiede di non uscire dall’Unione Europea e di revocare appunto l’articolo 50 per cancellare la Brexit. La petizione ha continuato a crescere dopo la marcia di sabato, che secondo gli organizzatori ha visto oltre un milione di persone scendere per le strade di Londra.
Minacce all’ideatrice della petizione anti-Brexit
Sabato 23 marzo 2019, infatti, i manifestanti hanno sventolato bandiere e cartelloni dell’Unione Europea da Hyde Park Corner a Parliament Square, rivolgendosi al governo per chiedere un “voto popolare” sulla Brexit. Il 96% delle firme provengono dal Regno Unito, nonostante ci siano stati chiari intenti di bloccarle. Margaret Georgiadou, ideatrice della petizione, proprio sabato ha dichiarato di aver ricevuto minacce di morte, fatto che l’ha portata a cancellare il suo account Facebook dopo un “torrent of abuse”. In molti, dal vicecapo laburista Tom Watson, all’ex parlamentare conservatrice Anna Soubry, ora membro del gruppo indipendente, hanno esortato i colleghi parlamentari a “mettere al primo posto il Paese e appoggiare un voto popolare”. Il sindaco londinese, Sadiq Khan, votato anche da cittadini europei estromessi dal referendum Brexit del 2016, ha chiesto che l’articolo 50 venga ritirato: “È tempo di dare a noi, il popolo britannico, l’ultima parola sulla Brexit!”, ha detto. L’appoggio dei parlamentari sull’accordo Brexit di Theresa May é drasticamente crollato domenica sera, dopo un significativo summit fatto da Boris Johnson e altri leader Brexiters conclusosi senza alcuna intesa.
Alla premier May sono state suggerite le “dimissioni” una volta approvato il suo accordo, lasciando posto a un altro Primo ministro in grado di negoziare i trattati commerciali con l’Unione. Per ora nulla di tutto questo é stato confermato né smentito. Sicuramente i parlamentari Michael Gove, David Lidington e Philip Hammond hanno negato la possibilità di un imminente colpo di stato per rimuovere May.
Ad oggi non vi é alcuna svolta e Downing Street é in imbarazzo di fronte ai giornalisti che chiedono ulteriori chiarimenti sulla vicenda. Ma il Primo ministro non è in grado di sapere e affermare “se c’è un sostegno sufficiente” a ottenere un voto significativo questa settimana che le permetta di uscire con un accordo sicuro.
Secondo Referendum?
É anticostituzionale, risponde il Primo ministro. Ma non solo. Molti cittadini britannici che hanno votato per la Brexit hanno più volte affermato che i quesiti del primo referendum erano chiari: restare o andare senza tanti accordi. Sarebbe dunque colpa del Parlamento che da due anni a questa parte ha anteposto al volere popolare il servilismo verso l’Europa. Lo stesso Steve Barclay, segretario di Brexit, ha affermato che un secondo referendum potrebbe provocare una crisi costituzionale o elezioni.
La domanda da porsi é: un referendum consultivo può avere valenza legale e quindi immediatamente attuabile? Per il sistema britannico apparentemente sì, ma ciò ha determinato uno scontro sulle funzioni parlamentari. Infatti, ciò che stiamo vivendo oggi è che se una qualsiasi circoscrizione ha eletto un deputato il cui partito di appartenenza é a favore del remain, mentre il risultato del referendum popolare ha espresso parere positivo per il leave, ci si chiede legittimamente se questo parlamentare deve essere fedele al voto di rappresentanza ricevuto, quindi in linea con la politica del suo partito, oppure deve adeguarsi alle nuove indicazioni provenienti dal suo elettorato di circoscrizione.
La strada per la Brexit, dunque, é ancora lunga ma il tempo per Theresa May é ormai scaduto.
a cura di Sara Novello