Con un governo sempre più in bilico e una strategia Brexit che, a forza di oscillare tra una linea hard e una linea soft, è finita per risultare incomprensibile, due anni dopo quel maledetto referendum, anche alla stessa premier, Theresa May incassa in meno di ventiquattro ore le dimissioni di David Davis, ministro per la Brexit e quelle di Boris Johnson, ministro degli Esteri. Johnson è quindi ormai il più probabile successore dell’inquilina di Downing Street in caso di uno show-down che ormai è già in atto.
Che non fosse nato sotto una buona stella, il Governo May, lo si era compreso sin da subito, con un esecutivo raffazzonato dopo l’incauto azzardo elettorale di David Cameron e con elezioni anticipate vinte sul filo di lana contro una delle leadership laburiste più deboli della storia, quella di Corbyn, che invece la premier è riuscita non solo a resuscitare ma addirittura a far divenire un’icona della sinistra europea. Ma soprattutto con una trattativa sulla Brexit che, a pochi mesi dalla sua entrata in vigore, è ancora una incognita lungi dall’essere chiarita nelle sue modalità e nel suo impatto effettivo nel mercato interno e nei rapporti diplomatici.
È proprio su questi punti che permane all’interno del Partito conservatore la divisione tra chi, come Johnson e Davis, sposa una linea durissima e chi, come la May, già sostenitrice, seppur svogliata, del “remain”, vorrebbe salvaguardare il cordone ombelicale con Bruxelles e con l’area euro. Nella trattativa in atto da mesi con la Commissione Europea, infatti, la May, dopo non poche indecisioni, aveva imboccato la strada di una linea soft, soprattutto nell’ottica di preservare la politica industriale e agricola britannica nel timore di un impatto negativo nell’economia interna in caso di una rottura totale. Ed è proprio questa “Brino” (Brexit In Name Only, Brexit nominale), presentata venerdì scorso da May, che i due Ministri capofila dell’ala euroscettica dei Tories, hanno deciso di abbandonare il governo e di condurre una battaglia personale che ormai investe la stessa sopravvivenza del gabinetto conservatore di Londra, tenuto in vita dopo le elezioni del giugno 2017 ai Comuni solo grazie ad una alleanza inedita col partito unionista nordirlandese. Già durante il weekend si erano fatti febbrili i rumors su una possibile sfiducia dei parlamentari conservatori nei confronti della premier, un passaggio talmente delicato che nel 1990 costò in una notte a Margaret Thatcher, dopo 11 anni, Downing Street e la leadership dei conservatori. Nonostante la sicurezza ostentata sala premier queste doppie dimissioni che hanno colpito il “Cabinet” segnano inevitabilmente una svolta, forse la prima in oltre ventiquattro mesi, sulla vera linea da adottare nella procedura di uscita dall’UE. Con sole il solo assenso di 48 parlamentari si aprirebbe una procedura di sfiducia che porterebbe, con ogni probabilità, la May ad una conta fatale. E se la premier capisse, pallottoliere alla mano, di non avere scampo deciderebbe di dimettersi anzitempo, proprio come la Thatcher.
E a quanto pare, dalle prime indiscrezioni, sarà proprio questa la strada che Johnson tenterà di imboccare per divenire a sua volta Primo ministro, due anni dopo aver rinunciato alla premiership proprio a favore di May, una premier nata debole e che rischia oggi di venire divorata dalla debolezza, ormai cronica, che ha connotato più di ogni altra virtù, la sua breve e grigia parentesi da presunta erede della Lady di ferro, divenuta ora, in un enorme paradosso, da nemica numero uno a unica possibile alleata dell’Europa, da sempre contraria ad una Brexit formato hard.