Con la caduta dell’Isis in Siria ed Iraq, il movimento jihadista mondiale ha sicuramente perduto un simbolo, una bandiera sotto la quale riunirsi per portare avanti il folle progetto di una islamizzazione globale forzata, ma la spinta emulativa che il Daesh ha saputo imprimere ai suoi adepti e, di conseguenza, ai simpatizzanti, non deve ritenersi esaurita.
Il rischio di un avvento del fenomeno chiamato “gemmazione”, ossia la proliferazione di gruppi minori che, sull’esempio dei seguaci di al-Baghdadi, continuino a colpire l’Occidente, non solo è latente ma in crescita costante. Una crescita quasi silenziosa che sfugge alle analisi più superficiali.
La portata globale dello stillicidio di attacchi compiuti in nome del Califfato, in modo brutale ma determinato, deve essere vista non con lo sguardo critico della vittima, ma con gli occhi degli aspiranti carnefici, coloro i quali fino a questo momento sono rimasti nell’ombra, pronti ad attivarsi in modo assolutamente autonomo e perciò, difficilmente individuabili. Gli spunti per innescare questo automatismo non mancano.
Anche se le intelligence d’Occidente hanno gradualmente aggiornato i rispettivi sistemi di controllo del fenomeno jihadista, ciò non toglie che tra le migliaia di clandestini che, in modo incontrollato, giungono quotidianamente sulle coste europee, si trovino gruppi di sbandati in fuga dal Medio Oriente o addirittura “operativi” che, sfruttando le rotte della disperazione, riescano a giungere incolumi verso le destinazioni assegnate per i loro incarichi.
Ma oltre che giovarsi del fenomeno “immigrazione”, i transfughi dell’Isis hanno trovato accoglienza anche all’interno di gruppi ritenuti minoritari quali, a titolo di esempio, la Wilayat Sinai, la provincia del Califfato in pieno territorio egiziano e a pochi chilometri da Israele.
L’esercito di al-Sisi combatte da mesi una guerriglia che, quasi a cadenza quotidiana, provoca vittime tra i civili ed i militari egiziani e, l’accanimento con il quale i miliziani combattono, viene portato ad esempio come un sintomo di dedizione al credo islamista in attesa della rivincita contro l’Occidente e, ovviamente, il vicino Stato ebraico.
Il rischio per Israele si è accresciuto a seguito della recente decisione del presidente Donald Trump di trasferire l’ambasciata degli Stati Uniti a Gerusalemme, riconoscendola di fatto come capitale dello Stato ebraico. A seguito di tale iniziativa si è assistito a un proliferare di attacchi contro le truppe di Netanyahu e numerosi coloni. La recrudescenza delle attività terroristiche contro Israele troverebbe una giustificazione proprio nell’adesione di ex miliziani dell’Isis a gruppi locali ai quali, oltre che l’esperienza in combattimento, i nuovi arrivati avrebbero infuso anche la loro volontà indomita di proseguire la lotta anche dopo la sconfitta militare patita in Siria. La guerra contro Israele rappresenta da sempre l’obiettivo primario degli jihadisti ed è un cavallo di battaglia vincente, soprattutto nell’ambito dei processi di radicalizzazione e reclutamento da parte dei molteplici gruppi operanti in Medio oriente.
Nonostante la propaganda del Daesh abbia fomentato le azioni dei propri adepti durante il periodo delle festività di fine anno, fortunatamente con scarsi risultati, è comunque lecito attendersi un risveglio delle attività contro l’Occidente. L’attenzione degli organi delegati alla sicurezza, raggiunto l’apice massimo durante gli ultimi mesi dell’offensiva contro il Califfato, tenderà a calare in proporzione al silenzio della propaganda jihadista ed all’assenza di indicatori rilevanti di attività terroristiche.
L’internazionale jihadista non è assoggettata a strategie specifiche, tantomeno a direttive impartite dall’alto. Le cellule si muovono in modo autonomo, integrate nel tessuto sociale ove si trovano a operare, quindi attente a cogliere il momento in cui attivarsi per agire.
E proprio nell’ambito dei gruppi jihadisti occorre tenere in debito conto la rivalità, neanche troppo sotterranea, tra lo sconfitto Isis e la crescente al-Qaeda, che propone il giovane Hamza bin Laden come probabile successore alla leadership del movimento jihadista con una nuova versione di al-Qaeda. Il figlio di Oussama appare come un giovane preparato e capace di assumere le redini lasciate dal padre, giovandosi anche di una grossa popolarità.
Una volta raccolta l’esperienza dell’Isis, Hamza potrà giovarsi di una rete jihadista già consolidata e, accogliendo all’interno della sua organizzazione anche i reduci del Califfato, potrà contare su una nuova versione di Al Qaeda, con la quale tornare a minacciare l’Occidente.