A qualcuno, e non a torto, torna in mente quel vertice di Parigi che, nel sancire la fine della guerra fredda, preparò anche le condizioni per la fronda che, pochi giorni dopo, avrebbe costretto Margaret Thatcher a cedere il passo a John Major e lasciare per sempre il numero dieci di Downing Street.
Proprio come in quel fatidico 1990 un gruppetto sempre più numeroso di deputati, quaranta secondo le indiscrezioni del Sunday Times, avrebbe già sottoscritto un documento di sfiducia a Theresa May e si avvicinerebbe di pochissimo a 48, il quorum per far scattare una votazione all’interno dei tories per l’elezione di un nuovo leader. Certo, né la debolezza della premier né il permanere di una forte contrapposizione all’interno della maggioranza conservatrice sono una novità, ma questa accelerazione dopo la fissazione della data (e dell’ora) dell’uscita definitiva del Regno Unito dall’Unione Europea è destinata ad indebolire ulteriormente la già poca credibilità di una leader sempre più sola ed in difficoltà.
Sullo sfondo della nascente congiura, ovviamente, le diverse linee di approccio alla Brexit e i numerosi ripensamenti di buona parte del gruppo tories sulla strategia di uscita dal gruppo dei ventisette che si fa, ogni giorno, più difficile e meno popolare anche tra i cittadini che poco più di un anno fa hanno sancito, con un voto, questo divorzio.
Le spine sul fianco del secondo gabinetto May sono soprattutto due: la apparente impraticabilità di una “hard Brexit“, sostenuta dal ministro degli Esteri Johnson e dall’ex sfidante della May (poi ritiratosi dalla corsa) Gove, e la scure dei costi di divorzio che Bruxelles vorrebbe accollare interamente al Regno Unito sia in caso di ulteriori ritardi sulla road map e sia in caso di mancato accordo dell’accordo tra i due partners. Una strada, effettivamente, sempre più impervia che sta costringendo da mesi la May a cambiare posizione quasi ogni giorno, con dichiarazioni che puntualmente smentiscono quelle dei giorni precedenti e che non lasciano intravedere una linea chiara sulla strategia di uscita.
Come noto, la risicata maggioranza conservatrice ai Comuni si regge solo su un fragilissimo accordo con gli unionisti nordirlandesi e l’opposizione laburista, data per morente fino alle scorse elezioni di giugno, ha invece trovato un nuovo slancio, nonostante i numerosi tentativi di defenestrare un Corbyn che oggi appare molto più in sella rispetto al primo ministro. La partita si giocherà ora su questi otto congiurati che mancano per far scattare il redde rationem anche se la May, proprio come la Thatcher, ha già dichiarato che andrà avanti per la sua strada. Ma, a differenza del 1990, il Primo ministro non può contare né su un delfino designato che possa salvare la linea del suo gabinetto né su quell’aurea di infallibilità che aveva reso la Thatcher imbattibile anche sul fronte interno per oltre quindici anni. Difficile che la May riesca a salvarsi ancora anche se, con ogni probabilità, la strada che porta verso l’uscita della leader da Downing Street potrebbe riservare molte sorprese e colpi di scena. La debolezza della May, per alcuni potenti conservatori, è infatti un assegno circolare per poter telecomandare Brexit dall’esterno e senza rimanere sotto i riflettori.