A cura di di Marco Petrelli
“Possiamo dire d’aver raggiunto una stabilità fragile”. Così commenta il Generale di Divisione, Giovanni Fungo (Comandante Kfor), la situazione del Kossovo a 18 anni dalla fine del conflitto con la Serbia. Torinese, classe 1960, ufficiale proveniente dai ranghi della cavalleria, in passato comandante del Reconnaissance Surveillance and Target Acquisition (Rsta), il Generale non è nuovo al teatro kossovaro avendovi già prestato servizio (con altri ruoli di comando) in un periodo in cui la situazione era ancora calda.
In carica quale ComKfor dal settembre 2016, il Generale è ormai giunto al termine del suo mandato. A succedergli sarà un altro italiano: scelta importante che sottolinea il peso dell’Italia in una longeva missione internazionale che coinvolge 31 nazioni dagli Usa e Canada alla Turchia, fino all’ Irlanda, all’Albania, alla Grecia e addirittura alla Svizzera. Colpisce notare i militari elvetici nella Film City, la grande base Nato a pochi chilometri da Pristina: pur essendo neutrale, infatti, la Confederazione ha una partnership con l’Alleanza Atlantica che si articola anche nella capitale kossovara dove gli elvetici svolgono funzioni di polizia militare.
“Coordinare così tanti paesi è impegnativo – continua il ComKfor – ma averli al proprio fianco vuol dire poter contare su una consistente forza, indispensabile per adempiere ai nostri compiti”.
Già, ma quanti sono e cosa fanno gli uomini e le donne di Kfor?
Dai 50 mila iniziali, in Kossovo si contano ora poco meno di 5 mila militari, tra cui 550 italiani, il cui ruolo è garantire stabilità al contesto socio-politico della Repubblica balcanica e dare formazione continua alle unità di sicurezza locali. Un’attività importante e impegnativa che non manca di coinvolgere personale locale altamente qualificato.
Radio Broadcaster a Kforyou tiene informato il pubblico 24 su 24
E’ l’esempio di Emina, Radio Broadcaster a Kforyou, l’emittente on air 24 ore su 24 per 7 giorni su 7 che, insieme alla Tv e all’omonimo magazine, tiene informato il pubblico su attualità, nuovi trend, recensioni delle pellicole che hanno sbancato il botteghino. Dai microfoni e dai programmi televisivi, inoltre, partono appelli alla popolazione simili alla nostra “pubblicità progresso”, cioè spot che spingono la gente a prestare attenzione sul pericolo mine o a ricordare che polizia e vigili del fuoco sono schierati a difesa della collettività a prescindere dall’appartenenza religiosa ed etnica. E in un teatro quale i Balcani è sempre bene tenere conto della molteplicità delle tessere che compongono il fragile mosaico sociale, poiché basta davvero poco per riaccendere la fiamma dei nazionalismi locali, con conseguenze immaginabili. Una cosa che gli operatori dell’informazione di Pristina sanno bene: ogni contenuto, infatti, è sottoposto ad una scrupolosa analisi al fine di mandare in onda un prodotto che sia comprensibile e condivisibile ad un ampio bacino di utenza.
Al fianco di Emina e del personale militare ci sono speaker, video editor, giornalisti dall’impeccabile inglese e dalla padronanza delle due lingue della regione (l’albanese, la più diffusa, e il serbo) che con il proprio lavoro hanno fatto di Kforyou uno dei principali canali di informazione. Uscendo dalla base si percepisce come palinsesti e programmi siano assiduamente seguiti tanto da chi sfreccia per le moderne autostrade, tanto da chi fa un break fuori dalla futuristica università di Pristina. Malgrado una disoccupazione piuttosto elevata, infatti, le strade della capitale sono popolate da frotte di ragazzi fra i 20 e i 30 anni vale a dire da quella generazione che la guerra l’ha conosciuta in giovanissima età e che adesso guarda al futuro con maggiore speranza, animata dal desiderio di costruire il proprio avvenire lontana dagli echi e dalle atmosfere cupe della pulizia etnica. Un domani che si costruisce ogni giorno, all’ombra dei palazzi in costruzione, i cantieri sono un elemento caratteristico della skyline di Pristina, e fra i tavolini dei tanti bistrot che colorano Boulevard Nene Tereza, ovvero il viale intitolato a Madre Teresa.
Dunque, il nuovo humus culturale facilita il lavoro delle redazioni di Kforyou, accanto alle quali si articola ogni giorno il non meno importante compito dei Lmt (Liaison Monitoring Team) cioè nuclei di militari che vivono e lavorano sul territorio a contatto con chi lo abita, fornendo assistenza su questioni di natura amministrativa e sociale.
Ma facilitare non vuol dire abbassare la guardia o pensare che tutto ormai fili liscio: come accennato dal generale Fungo, la stabilità è fragile perché passato prossimo e presente del Kossovo mostrano che gli interessi che gravitano nell’area e i mutamenti della scena geopolitica fanno della repubblica uno scenario estremamente delicato e nel quale, verosimilmente, la missione multinazionale resterà ancora per molto tempo, affinché i risultati ottenuti in 18 anni non vengano vanificati.
D’altronde non va dimenticato che la Penisola balcanica è una delle linee di confronto fra Occidente e Mosca, come dimostrato dalle frizioni fra Russia e Montenegro in seguito all’adesione di Podgorica alla Nato. Frizioni materializzatesi per lo più in un danno economico per il piccolo stato sull’Adriatico orientale, poiché la Russia è un importante partner commerciale del paese. Ma per chi si avvicina all’Alleanza c’è chi se ne allontana: il 18 ottobre scorso il parlamento della Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina (Rs) ha votato per la neutralità militare mettendo di fatto in discussione il Membership Action Plan attivato dalla Bosnia a metà degli Anni Duemila. Seppure la Rs non rappresenti l’intero paese (essendo solo una delle due entità che lo costituisce), il cambiamento di rotta rappresenta uno smacco per la politica estera della Nato nei Balcani, specie se la motivazione di tale neutralità è la vicinanza geografica fra la Rs e la Serbia. Sì, in Serbia il ricordo dei bombardamenti del 1999 è ancora vivo e l’Alleanza non gode di grande amore da parte delle istituzioni e del popolo; inoltre, Belgrado è un giocatore importante nel match fra russi e occidentali perché da un lato mantiene buoni rapporti economici e militari con il Cremlino, che proprio in questi giorni ha donato alla Serbia 6 aereri caccia MiG modello 29, dall’altro continua a sperare che il processo di adesione all’Unione Europea vada a buon fine. Sono, infatti, ormai quasi 10 anni che la Repubblica di Serbia attende di diventare paese membro dell’Ue: dopo la candidatura nel 2012 e il processo di screening nel 2013, nel gennaio successivo sono partiti i negoziati che dovrebbero avvicinare Belgrado a Bruxelles. Un percorso che aiuterebbe i serbi a sentirsi più europei ma, soprattutto, che li costringerebbe ad accettare degli standard di condotta politica e diplomatica che avrebbero riflessi positivi per la stabilità della Penisola balcanica. Primo fra tutti la definitiva normalizzazione dei rapporti con il Kossovo. Malgrado le buone intenzioni dei serbi, resta un dubbio: può davvero un popolo anti-Nato e vicino ai russi stare sotto lo stesso tetto con chi ha sanzionato Putin per la guerra in Crimea?