a cura di Pierpaolo Cecchi
Lo scontro sulla web tax riguarda le imprese che più di tutte incarnano le tendenze dell’economia attuale. Delocalizzare, per stabilirsi dove lo Stato applica meno divieti e meno tasse. Dematerializzare, per ridurre l’impatto ambientale ed aver minore necessità di capitali. Meccanizzare, per avere meno costi di manodopera, in particolare riducendo le figure intermedie, a differenza di quelle elevate troppo difficili da sostituire con le macchine e quelle basse per cui il gioco non vale la candela, dato che costano già poco. Per i giganti del web è sempre più facile trasferire le proprie sedi dove è più conveniente e rimpiazzare la materia ed il lavoro umano nei processi produttivi.
Ma se riguardo al lavoro umano è ragionevole aspettarsi che in futuro queste imprese partoriscano nuove figure professionali per tutte le fasce della popolazione, come già avvenuto nelle altre rivoluzioni tecnologiche, rimane aperto il tema delle delocalizzazioni, quello che tocca più da vicino il ruolo dello Stato.
Dato che ci si sposta per pagare meno imposte dirette, non ha più senso trasferire l’imposizione fiscale dai redditi ai consumi, invece di parlare di web tax? Se l’imposizione fiscale fosse basata su un’Iva comune europea, ad esempio, non cambierebbe nulla se Amazon avesse sede in Irlanda, in Lussemburgo, in Corea, in Italia o negli Usa, perché vendendo ad un cliente italiano verrebbe pagata comunque la stessa Iva e non si porrebbe il tema della tassazione degli utili della società. L’Iva infatti si applica alle merci ed ai servizi, non ai redditi delle persone o delle imprese, colpendo allo stesso modo le produzioni interne e le importazioni.
I costi dello Stato, che si esprimono anzitutto nelle tasse, ricadono già oggi sul consumatore perché alla fine vengono caricati sul prezzo finale dei prodotti, ma col nuovo sistema si tasserebbero direttamente i consumi a prescindere dalla provenienza del prodotto, rendendo inutile per le aziende spostarsi per cercare tasse più basse.
Qualcuno forse storcerà il naso perché sperava in una sana concorrenza fiscale fra Stati, ma questo vale per la teoria. Nella realtà assistiamo alle imprese più grandi che strappano condizioni di favore solo per loro stesse e sull’altro fronte agli Stati più grandi che vogliono imporre nuove tasse su chi si sposta altrove. Molto meglio, in questo quadro, proporre una redistribuzione del carico fiscale, dove si tassa chi consuma qui e non chi produce qui.
Altri vogliono redistribuire i profitti che le grandi aziende realizzano grazie alle loro posizioni dominanti, ma proprio queste posizioni e questi profitti consentono di attirare investimenti, creare occupazione, stimolare i concorrenti innovativi a creare prodotti migliori per prenderne il posto. Altrimenti la concorrenza spietata dei mercati globalizzati e l’abbondanza di mezzi produttivi spingono i prezzi ed i profitti al ribasso, allontanando investimenti e cervelli. Lo spostamento del carico fiscale non deve essere punitivo, ma di aiuto all’impresa.
