I venti di guerra fredda nel Pacifico si fanno, giorno dopo giorno, più forti. L’America di Trump, distratta in queste ore dall’allarme uragani e ancora alle prese con i rumors sempre più inquietanti relativi al Russiagate, studia le contromosse politiche, diplomatiche e militari da contrapporre al sempre più fuori controllo regime comunista nordcoreano. L’iniziale censura da parte dello storico e ancora, tutto sommato, fedele alleato cinese non sembra aver indotto Kim-jong Un a tornare sui suoi passi e l’agenda di Pyongyang sui test missilistici programmati per i prossimi mesi non sembra, a tutt’oggi, mutare programma. Di certo c’è solo che si andrà avanti ancora e, con ogni probabilità, l’occidente si troverà ad assistere all’ennesima provocazione da parte del giovane dittatore coreano.
Le forti censure diplomatiche arrivate in questi giorni dalla Russia e dalla Cina, unitamente alle dichiarazioni dei loro leaders sulla pericolosa escalation che potrebbe provocare un’opzione militare di reazione, non solo fanno presagire uno stallo la cui risoluzione è assai lontana da venire ma interrogano, e non poco, Washington sulla reale volontà di Vladimir Putin e Xi Jinping di fermare seriamente la folle corsa all’armamento nucleare della Corea del Nord la quale, nonostante le forti frizioni che caratterizzano l’asse Mosca-Pechino-Pyongyang, rappresenta la miglior arma di contenimento delle velleità statunitensi (e giapponesi) nello strategico arcipelago del Pacifico. Appare ormai abbastanza chiaro come un eventuale cambio di leadership in Corea del Nord non solo possa indebolire sia la Russia che la Cina, anzitutto sul piano diplomatico, permettendo così a Trump di cantare vittoria dopo settant’anni di tentativi ma soprattutto, toglierebbe di mezzo l’unica e concreta minaccia da brandire all’occorrenza nei confronti del territorio americano. La Corea del Nord, infatti, appare sempre più di più come un cavallo di Troia in mano a russi e cinesi per tenere a debita distanza le ambizioni giapponesi e sudcoreane e quindi, se appare, nonostante tutto, difficilmente possibile lo scoppio di un conflitto le cui conseguenze sarebbero devastanti, in ugual modo, sarà assai poco probabile che la paventata operazione diplomatica per defenestrare Kim possa vedere la luce nel breve e medio termine. Per la prima volta dalla caduta del muro di Berlino, infatti, l’ordine mondiale si troverebbe di fronte ad una crisi al buio, e caduta la logica della cortina di ferro, nessuno saprebbe sbrigliare la matassa. Come sostituire un regime comunista preservando lo status quo, infatti, è obiettivamente un interrogativo insormontabile. Con un altro comunista, magari più vicino e fedele a Pechino? Oppure puntare sulla riunificazione dell’isola che dal 1953 divide il trentottesimo parallelo? Entrambe le ipotesi scontenterebbero gli attori alla finestra. Ecco perché, nonostante tutto, la strategia del contenimento alla “bastone e carota” che ha caratterizzato il palcoscenico nordcoreano degli ultimi decenni appare oggi, nonostante tutto, l’opzione meno dispendiosa e più redditizia per tutti.