La religione divide i popoli? Tutti gli Ebrei si identificano con Israele? Le domande rivolte ai lettori da Salvatore Falzone, autore del libro “L’ Intreccio del Medio Oriente: Israele- Libano- Palestina”, necessitano una risposta. Così abbiamo chiesto allo stesso Falzone, educatore professionale che ha prestato la sua attività presso l’Istituto Testasecca (nell’ambito del progetto “ RI.VI.TA” del Fondo europeo per i rifugiati) di spiegare il senso dei suoi interrogativi.
Dottor Falzone, come da lei accennato “pochi si accorgono che le vite di noi occidentali sono fortemente legate a quelle degli uomini che vivono in Palestina e in Israele”. Quali sono i punti di contatto?
“La questione israelo-palestinese è centrale nel panorama politico in Medio Oriente, non è un caso che tutte le organizzazioni terroristiche la usino come “cavallo di battaglia” per autolegittimarsi e fare da collante, da fronte unito e con il messaggio: “Israele è l’Occidente piantato in Medio Oriente”. Ogni evento, ogni crisi tra israeliani e palestinesi ha dei riflessi sia a livello regionale che internazionale. Ricordo che all’inizio dell’operazione americana ‘giustizia duratura’, a seguito dell’11 settembre, Ayaman al Zawahairi, vero ideologo di Al Qaeda, nel discorso di risposta all’attacco americano ai Talebani elencò una serie di questioni: dal Libano all’Iraq fino alla questione israelo-palestinese. Mi colpì il fatto che Al Zawahairi lasciava in certi punti libera interpretazione per poi ricompattarsi in unico fronte, come sulla questione di Gerusalemme: “E’ meglio, ed è facile per noi, che questa comunità perisca tutta assieme piuttosto che vedere le moschee di al Aqsa demolite o la Palestina giudeizzata e la sua gente buttata fuori”. Questo passo può essere interpretato in ogni momento o fase storica del Medio Oriente: dalle crociate, alle guerre arabo-israeliane, alla questione palestinese, alla vicende di Gerusalemme nei vari processi di pace, fino allo scoppiò della seconda intifada. Ovviamente per Al Zawahiri la colpa è dell’America e dell’Europa. E’ una chiamata per il mondo musulmano a unirsi alle varie organizzazioni terroristiche per combattere contro l’Occidente. Bisogna aggiungere che nei vari messaggi seguiti dopo, ed esternati da Bin Laden, le critiche vertevano anche sui Paesi arabi moderati, considerati di “cartapesta” e lacchè dell’Occidente. La stessa Autorità Nazionale Palestinese fu fortemente criticata e secondo Bin Laden occorreva un rovesciamento di quel governo. Va anche detto che la questione israelo-palestinese è molto sentita in Occidente per via dei legami religiosi, in quanto le tre religioni monoteiste (ebraismo, cristianesimo e Islam) vedono Gerusalemme come parte essenziale della loro identità religiosa. Questo a causa dei legami o delle alleanze politiche con una delle parti, o ancora per l’interesse geopolitico classico, o per quel ponte di sviluppo interculturale, ove si arrivasse alla pace”.
La questione arabo-palestinese e la fragilità libanese. Lei ne affronta le fasi e l’evoluzione storica fino ai giorni nostri. Qual è la situazione attuale?
“I palestinesi sono divisi con due governi, con due autorità, da un lato l’Anp del Presidente Abu Mazen in Cisgiordania, mentre a Gaza governa Hamas. Le varie piattaforme politiche finora raggiunte, nei vari incontri nei diversi Paesi arabi, non hanno prodotto quell’unità politica necessaria per affrontare i vari problemi e arrivare a un negoziato con gli israeliani che contempli tutti i punti del contenzioso: dalla sicurezza, agli insediamenti, ai confini, ai profughi, alla capitale per la soluzione “due popoli per due Stati”. La mancanza di unità indebolisce la stessa Autorità palestinese, fa ritenere e mantenere Hamas come organizzazione terroristica e aiuta chi desidera la stasi del processo di pace. Dai Paesi arabi nel frattempo si ribadisce l’appoggio del “Piano di Pace Arabo” patrocinato dall’Arabia Saudita. Se si vuole la pace nell’ambito della formula “due Stati per due popoli”, occorre che ognuno svolga la sua parte anteponendo i problemi della gente, delle popolazioni, e non i soliti interessi e convenienze politiche. Continuare a rimandare evitando di affrontare il nodo tra israeliani e palestinesi non risolve il conflitto, ma lo rende nel breve periodo apparentemente gestibile, anche se ciclicamente pronto a nuove violenze. Per quanto riguarda la “fragilità” del Libano, la situazione oscilla in un apparente equilibrismo intercomunitario raggiunto – dopo due anni circa di vuoto istituzionale – con l’elezione alla Presidenza della Repubblica di Michel Aoun. Poi ci sono i riflessi della guerra in Siria. Nel Paese dei Cedri sono affluiti, dall’inizio della guerra, oltre 1 milione di persone. Se si tiene conto che l’intera popolazione libanese oscilla intorno ai 4,5 milioni di abitanti, e considerando i profughi palestinesi intorno ai 400 mila, si può capire come le Istituzioni libanesi siano sotto una forte pressione politica, sociale ed economica. In definitiva il Paese rischia la propria apparente stabilità, in un quadro assai frammentato e con un conflitto “congelato” tra Hezbollah e Israele. Ancora una volta il Libano rischia di essere risucchiato dalle varie tensioni interne e regionali”.
Lo chiede lei ai lettori nel libro: la religione divide i popoli? Crede che tutti gli Ebrei si identifichino con Israele, ad esempio, cosi come chi è di fede islamica o cristiana, nella Palestina?
“La religione intesa come fede no, non provoca divisioni, ma occorre riconoscere alcune cose: dai Dieci Comandamenti, ai due Comandamenti della Carità, ai Cinque Pilastri dell’Islam si parla di rispetto, di fratellanza, di aiuto, si parla del bene e non del male. Tuttavia alcune interpretazioni o l’estrapolazione di alcuni passi nei vari testi possono essere strumentalizzati per assumere, conservare o raggiungere il potere. Tutto dipende dalla forma di Stato, con la divisione dei poteri. Non tutti gli Ebrei si identificano con lo Stato di Israele, Israele non è uno Stato che si fonda sulla religione, ma sulla aspirazione nazionale. Certo la religione fa parte della propria identità, ma non è il solo elemento. Nel popolo palestinese anteporrei prima le strutture claniche, tribali e familiari. In Libano invece l’equilibrio di potere si mantiene sulle comunità storiche del paese, in cui le figure religiose sono un punto di riferimento. Non si tratta di uno Stato religioso, ma un sistema che porta a priori l’appartenenza alla comunità rispetto alla comune cittadinanza”.
Spesso si ritiene che i territori del 1967 siano l’unica via per la pace. Come mai ancora oggi non si è trovato un accordo?
“Dal ‘48 al ’67 i territori di Gaza e Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est con la parte vecchia della città, erano in mano agli arabi, i quali non proclamarono la nascita di uno Stato Palestinese. Gaza era sotto occupazione e amministrazione egiziana, mentre la Cisgiordania fu occupata e poi annessa dalla Giordania, che riconobbe il diritto di cittadinanza ai profughi palestinesi. Annessione che non fu riconosciuta da nessuno Stato arabo. Dopo la guerra dei sei giorni quei territori passarono sotto l’occupazione israeliana, ma sin dalla fine del terzo conflitto arabo-israeliano il generale Allon propose un piano di restituzione in cambio del riconoscimento di Israele. La risposta fu data con i tre no: no alla pace, no al riconoscimento, no al negoziato con Israele. Oggi si parla di ritornare ai confini del 4 giugno ’67, ovvero alle linee di armistizio del primo conflitto del ’48, ognuno delle parti interpreta uno spostamento della Linea Verde”.
L’intreccio del Medio Oriente, Israele, Libano e la Palestina. Potrebbero essere fattori collaterali alle crisi che viviamo dal Maghreb al Mashrek?
“La mancanza di uno Stato palestinese, il mancato riconoscimento di Israele, la messa in discussione dell’indipendenza del Libano, la presenza di attori aventi sia apparati politici e paramilitari, come Hezbollah e Hamas, innescano quel gioco di alleanze esterne secondo il principio di “guerra per procura”. Tutto ciò permette alle classi dirigenti di crearsi un “cavallo di battaglia” per mantenersi in sella al potere. Davanti ai vari problemi economici, sociali, politici hanno sempre invocato la presenza di un nemico esterno rendendo il quadro politico interno ed esterno in perenne instabilità”.
Israele guarda alla Libia? Nel passato taluni analisti paventarono già la presenza dello Stato di Israele nell’area, ad esempio nello stesso Nfsl (Fronte Nazionale per la salvezza della Libia). E secondo alcuni analisti ci fu la presenza dei servizi israeliani coaudivati dalla Cia. Non crede che una presenza Israeliana nell’area darebbe l’opportunità a Israele di entrare in contatto con altri Stati Arabi, ad esempio con il Qatar?
“Israele come tutte le nazioni del Mediterraneo monitora la situazione, la stabilità dell’area è un fattore di sicurezza per tutti. Tuttavia non credo che Israele si possa rendere visibile in un teatro, quello libico, dove non esiste più la Libia intesa come entità statuale. Ai tempi di Gheddafi vi era la Jamahiriya, ovvero “Stato delle masse”. Oggi il Paese è diviso sia territorialmente (tra Tripolitania, Cirenaica e Fezzan), che socialmente (in famiglie, clan e tribù). Ognuno ha le sue alleanze e i suoi referenti. Penso che Israele possa seguire la situazione allineandosi agli egiziani: guardare al generale Haftar come uomo forte che possa riportare ordine e stabilità. Tutto ciò salderebbe la vicinanza politica con l’Egitto del generale Al Sisi, nonché la Russia di Putin, altro sponsor di Haftar. Inoltre credo che Israele punti sul comune interesse, seppure con motivazioni differenti: contenere l’Iran con l’Arabia Saudita”.
Sarà mai possibile l’auspicata “pace calda” (come da lei definita) tra Anp, Israele e lo Stato libanese’
“Nel breve, e forse, medio periodo no. Troppe questioni sono aperte e non c’è unità sia tra le diverse parti interessate che a livello della Comunità internazionale. Troppe divisioni non favoriscono una piattaforma concordata sulla quale lavorare. Occorrono dei leader capaci di parlare ognuno alla propria gente e spiegare che bisogna proiettarsi al futuro e non guardare solo al passato, per un futuro di speranza verso la prosperità. Occorre che ognuno faccia la sua parte, sia i leader politici che economici. Occorre mettere al centro la centralità delle persone e non dei freddi numeri o degli interessi di Stati. Occorre rompere quella barriera anche psicologica per cui si deve solo essere nemici e non amici”