“Ci sono tanti ragazzi che scrivono sufficientemente bene da poter diventare scrittori a quindici anni”. Bianca Chiabrando, 17 anni, è la vincitrice del Premio Bancarellino 2017, con il suo fortunato libro “A noi due prof.”, un testo che racconta la storia di un professore cattivo e delle sue 25 impossibili regole. Si potrebbe pensare a un romanzo di esordio, ma in realtà la giovane autrice è già al suo secondo libro. Il primo, “Il caso 3D. Una classe irrecuperabile”, l’ha scritto quando frequentava la terza media.
Come si diventa scrittori a 15 anni? Cosa ti ha spinto a scrivere?
“La scrittura per me è stato un meccanismo di reazione dovuto alla mia timidezza. Tutto è iniziato come uno scherzo: volevo osservare e annotare i comportamenti che più mi sbigottivano dei miei compagni di classe. Scrivere i miei pensieri agli altri mi risultava sicuramente più semplice rispetto a farlo oralmente. Vedendo che i miei compagni ridevano dei miei appunti ho cominciato a sentirmi più sicura di me, e di conseguenza più serena. Ci sono tanti ragazzi che scrivono sufficientemente bene da poter diventare scrittori a quindici anni. Io ho semplicemente avuto la grande fortuna di trovare delle persone che hanno creduto in una piccola autrice”.
Beppe Severgnini ha detto: “L’ironia è, per definizione, speciale. È la capacità di leggere la realtà in modo originale e di dominarla, invece di farsene dominare”. Il tuo libro è sicuramente il frutto della capacità che hai di vedere la realtà con ironia. E’ vera per te questa frase? In qualche modo l’ironia ti ha “salvata”?
“Sono assolutamente d’accordo. Nel mio caso l’ironia è stata un’alleata preziosa. E’ stata il punto d’incontro tra me e i miei compagni, da cui mi sentivo molto diversa. È un mezzo molto potente per affrontare le difficoltà. Riprendendo la frase di Beppe Severgnini, è come passare da essere lettore a essere scrittore: insomma, è il modo più facile e piacevole per non lasciarsi sopraffare dai problemi che minano la vita di tutti i giorni e possono spesso rivelarsi pesanti da sopportare”.
Il primo libro parla dei tuoi compagni di classe, il secondo di un professore “cattivo”. Quanto c’è di vero nei tuoi personaggi e quanto è frutto della tua fantasia?
“Il caso 3D, il mio primo libro è ispirato a fatti realmente accaduti. La fantomatica III D esisteva davvero: ve lo potranno garantire tutti i nostri ex-professori, che sicuramente non si sono dimenticati di noi (e come potrebbero?). ‘A noi due, prof’, invece, è un romanzo di fantasia. Piero Pattume, il temutissimo insegnante di greco e latino attorno a cui ruota l’intera storia, non esiste. Potremmo dire che è una sorta di Frankenstein: ho cucito insieme le caratteristiche di molti professori con cui ho avuto a che fare o di cui ho sentito parlare. Il materiale tra cui scegliere sicuramente non mancava: in questi dodici anni di scuola ne ho sentite di storie…”.
Pensi che il mondo che ti circonda si senta intimorito dalla consapevolezza di poter finire prima o poi in un tuo scritto?
“Ho ricevuto opinioni contrastanti in merito. C’è chi è ben felice di diventare il personaggio di un libro, come ad esempio molti miei compagni delle medie, e chi invece credo proverebbe un pò di timore. Chissà, forse i miei attuali professori sono preoccupati di poter diventare i bersagli delle mie osservazioni. Tuttavia, vorrei tranquillizzarli: non mi conviene proprio fare ironia su di loro. Non dimentichiamoci che l’anno prossimo dovrò affrontare la maturità, e sono decisa a non cacciarmi nei guai”.
Come ci si sente ad avere successo a 17 anni? Ti ha cambiata? E’ cambiato il tuo rapporto con gli altri?
“Parlare di successo è un’esagerazione. Ma se intendiamo “successo” come soddisfazione personale, allora devo proprio rispondere affermativamente. Questa esperienza mi sta regalando tanta felicità e il confrontarmi con il mondo della scrittura mi ha fatto sicuramente maturare”.
Qual è il best seller che avresti voluto scrivere tu e perché?
“Il Nome della Rosa, di Umberto Eco. Ammiro moltissimo la capacità che aveva Eco di amalgamare perfettamente il mistero, la storia e la cultura, senza mai rendere pesante la lettura, grazie a un pizzico di ironia. E’ il mio romanzo preferito: l’ho riletto più volte, e nonostante ciò non smette mai di sorprendermi”.
Ho letto che vuoi fare la psicologa. Questo significa che in futuro pensi di smettere di scrivere o ci sarà sempre spazio nella tua vita per la scrittura?
“E’ vero, vorrei studiare psicologia all’università. Magari è un pò presto per sapere quale lavoro deciderò di fare una volta terminati gli studi. Una cosa però è certa: non ho intenzione di abbandonare la scrittura. Non voglio sprecare l’opportunità unica di poter condividere la mia passione con tutti. Scrivere un libro è vorticoso: molto emozionante, ma altrettanto stancante. È senz’altro una sensazione che non voglio smettere di provare. Però non voglio dedicarmi esclusivamente a questo nella vita. Una passione non deve precluderne un’altra. E spero che studiare psicologia mi aiuterà a trovare nuovi spunti per i miei libri”.
Qual è la domanda che vorresti ti facessero e che nessuno ti ha mai fatto?
“Non mi è mai stato chiesto qual è stato il primo libro che ho letto da sola. S’intitola Cipì, di Mario Lodi. Parla delle avventure di un uccellino, e della sua versione personale del mondo. Ricordo ancora che i fiumi venivano chiamati “nastri argentati”, mentre il sole era “la palla di fuoco”. Mi era piaciuto talmente tanto il suo modo di vedere il mondo che ero rimasta davvero male quando l’avevo finito. La storia mi è rimasta nel cuore e mi ha fatto diventare sempre più affamata di nuovi libri da leggere”.
@SimonaRivelli