Un passato prossimo che sembra remoto? Sembra così lontano il mondo senza elettricità, eppure non è passato neanche un secolo da quando la sera le persone si sedevano attorno alla luce di una candela.
Quando nel 1966 Gene Roddenberry creò la serie televisiva Star Trek, il mondo rappresentato sembrava così lontano, anche se l’uomo era già stato già sulla luna. Oggi abbiamo tutti il “tricorder” in tasca, si chiama smartphone, e la stazione spaziale internazionale ci ronza sulla testa giorno e notte dal 2000, mentre nazioni e privati fanno a gara per chi arriverà primo su Marte.
Tutto ciò che sembrava certo si è modificato. La nostra percezione della realtà si è modificata.
Se fino al secolo scorso il mondo sembrava regolato dalle immutabili norme della scienza positivista, oggi sappiamo che è tutto un fluire di energie e di atomi in movimento. Ipotizziamo mondi paralleli e viaggi nel tempo.
Un mondo che cambia in fretta. Nel frattempo, qui sulla terra, il nostro mondo quotidiano ha preso un’accelerazione che, talora, rasenta la follia. Corriamo tutti a destra e a manca, perennemente iperstimolati da media vecchi e nuovi, che fanno a gara per conquistarsi quel che rimane dei nostri spazi privati e tutto ci cambia in fretta intorno.
E dobbiamo adeguarci in fretta. E’ da qualche anno che si è cominciato a parlare di auto che guidano da sole. La possibilità che un computer potesse tener conto di tutte le variabili che intervengono nella guida, a cominciare dal fatto che le strade reali sono imperfette e gli uomini che guidano sono imprevedibili, sembravano problemi ancora lontani dal trovare soluzione. E, invece, per strada ci sono modelli che viaggiano in quasi totale autonomia.
In questo contesto rimane difficile ipotizzare cosa sarà il futuro, quali competenze saranno utili, cosa sarà importante. Mestieri che esistono da anni scompariranno. I piloti di aerei, per esempio, ben presto saranno rimpiazzati da macchine lucide ed efficienti.
Tutto si trasforma o forse no. Eppure, scrivono il neuroscienziato Gerald Hüther e il giornalista Uli Hauser, nel libro ‘Ogni bambino ha un grande talento, Aiutare i nostri figli a esprimere il meglio di sé coltivandone doti e predisposizioni’, continuiamo ad educare i nostri figli come se nulla fosse cambiato. Li mandiamo in scuole che sono rimaste grosso modo come quelle che frequentavano i nostri nonni. Per la verità continuiamo a fare molte cose come se nulla fosse cambiato, così come ci sono state insegnate. E, a volte, l’unico cambiamento di cui siamo capaci sembra essere la paura.
Il modello educativo è rimasto inalterato. Si educa all’obbedienza, si trasmettono nozioni, attraverso un modello ricompensa/punizione. Spesso agiamo nella convinzione di sapere noi cosa è meglio per i bambini. Ma davvero lo sappiamo?
Il talento, spiegano gli autori, non è un concetto oggettivo e immutabile, ma è contestualizzato: dipende dall’ambiente, dalla cultura di riferimento.
In una società primitiva sarà principalmente legato ad abilità manuali, alla capacità di procurarsi cibo. Man mano che ci si emancipa dalla soddisfazione di bisogni primari, il talento evolverà in abilità artistiche, matematiche, ecc.
In realtà, ogni bambino è “superdotato”. Ogni bambino ha delle predisposizioni particolari che attengono alla propria soggettività e al modo in cui si sono relazionati fin dalla pancia della mamma con il mondo esterno, a prescindere dal fatto che il mondo esterno valuti o meno importante quell’abilità.
Ciò che è certo è che i bambini nascono con un’enorme curiosità e un altrettanto grande capacità di apprendimento, che noi adulti, talora finiamo per frustrare, inibendo la loro voglia di esplorazione con risposte preconfezionate, che finiscono, sul lungo periodo per spegnere il loro entusiasmo, renderli apatici e talora ostili.
Il tutto in nome di un sapere che probabilmente sarà superato, se non domani, il giorno dopo ancora, in un mondo lanciato in una trasformazione che viaggia in progressione geometrica.
Oggi “ogni cosa è disponibile, classificata e preconfezionata, pronta per l’uso. Imparare da se stessi è sempre più spesso un lusso, diventa difficile farsi un’idea, perché le immagini esistono già. Prima dell’invenzione della tivù, l’essere umano doveva uscire di casa se voleva vivere qualcosa. Dall’avvento del computer può starsene comodamente seduto davanti allo schermo…”.
Come educare allora in questo mondo che cambia? Forse un suggerimento è contenuto nel significato stesso della parola: e ducere, tirare fuori.
Non si tratta di riempire i bambini di contenuti, ma di tirare fuori le loro abilità soggettive, i propri talenti, facendo leva sulla loro curiosità innata, proponendo problemi e non soluzioni, accompagnandoli con amore, ma con discrezione, ed entusiasmandoli.
C’è un video molto interessante su ciò che rivoluzionerà l’educazione. Tra una ricerca e l’altra la conclusione è che, tra tanta innovazione tecnologica, quello che rimane fondamentale è un insegnante capace di “guidare l’apprendimento”, che sia in grado di “inspirare, di sfidare, di motivare gli studenti nel voler imparare”.
E questo, più genericamente, è il compito di chiunque partecipi alla crescita di un bambino.
Probabilmente nessuno avrebbe investito i propri soldi per far seguire un corso di calligrafia al proprio figlio. Ma se i genitori di Steve Jobs non l’avessero lasciato libero di curiosare fra le aule dell’università, sicuramente noi oggi non avremmo nelle nostre tasche il nostro “tricorder”.
@SimonaRivelli