Sono milioni le donne oggetto di tratta e di predazione, dalle sponde nord-orientali del Mar Nero a quelle calde e soleggiate del Golfo Persico. Moldova, Ucraina, Romania e ancora Dubai, Qatar, Siria e Libano: paesi nei quali il mercato del sesso batte cassa sulla pelle di persone finite nelle mani di trafficanti, di profughe, di chi era in cerca di un approdo sicuro, nel tentativo di fuggire dalla miseria e dalla fame. Un illecito, lo schiavismo, vecchio come il mondo, ma che trova nuova linfa negli scarsi controlli e nella corruzione di una piccola repubblica nata all’indomani della dissoluzione dell’Unione Sovietica, la Moldova, oggi fra i paesi più poveri del Vecchio Continente e la cui economia, in larga misura, si regge sul denaro che i lavoratori emigrati inviano alle famiglie, in particolare donne che lasciano la propria terra con la speranza di trovare un impiego in Europa, negli Usa e, talvolta, in Medio Oriente, non di rado incappando in reti criminali.
Il business della prostituzione
Un rapporto del Dipartimento di Stato americano sulla prostituzione in Libano stima in circa diecimila gli arrivi dall’Europa orientale (anni 2014-2015) di ragazze attratte dall’opportunità di lavorare nell’industria dell’intrattenimento che nel paese comprende anche il sesso, poiché il meretrecio non è ostacolato dalla legge locale. Un buisness redditizio, dunque, ma non privo di rischi: è lo stesso Dipartimento, infatti, a segnalare gravi casi di abuso, di sequestro di persona e di confisca del passaporto che interessano giovani raggirate con una finta proposta di lavoro e con la scusa che le spese di viaggio saranno coperte dal sedicente datore. E a destinazione ecco l’amara sorpresa: il trasferimento in Libano va pagato, è un debito da estinguere prostituendosi. Una formula ricattatoria alla quale le organizzazioni criminali ricorrono spesso, ma non l’unica: a Dubai, dove la sharia proibisce attività legate al sesso, gli annunci online di escort attirano nella capitale emiratina europei e americani in cerca di sensazioni forti. Nonostante il governo locale oscuri i siti internet con inserzioni di carattere sessuale, fioccano profili Instagram e Facebook registrati in altri paesi con foto e numeri di telefono per scegliere e contattare direttamente la donna con la quale passare la notte. Profili come blonde girls, russian girls, eastern girls: concordato il prezzo, ci si dà appuntamento in un albergo lontani dagli occhi, indiscreti, della gente e delle autorità, queste ultime propense a non indagare su ciò che gli stranieri fanno nelle strutture alberghiere. Occhio non vede… legge non duole: se fra le quattro mura di una camera di hotel si può avere del sesso mercenario, in strada è però assolutamente proibita qualsiasi infrazione legata al buon costume, anche in caso di violenza: lo scorso novembre una turista inglese è stata arrestata dalla polizia di Dubai dopo aver denunciato uno stupro. L’atteggiamento delle autorità emiratine, quindi, tende a scoraggiare fughe o richieste di aiuto di schiave che, anziché soccorso, rischierebbero di incappare in un arresto per prostituzione.
Altro elemento che in Medio Oriente favorisce il “commercio” di carne umana è la guerra civile siriana. Dal 2011 sono milioni i profughi che hanno trovato rifugio nei paesi limitrofi (Turchia, Libano e Giordania) o a che hanno tentato di raggiungere Germania, Svezia e Canada. A oggi, circa un 1,5 milioni di civili siriani vivono in territorio libanese 300 mila dei quali, si stima, come clandestini. La fame, il bisogno di sicurezza e di denaro sono fattori sufficienti a spingere la persona ad accettare qualunque compromesso pur di mantenere se stessa e la propria famiglia: lavoro nero e sottopagato, prostituzione o mettere all’ “asta” una figlia minorenne. In Libano i matrimoni forzati sono diventati una piaga che, stando ai dati UNHCR, affligge il 6% delle rifugiate fra i 12 e i 17 anni vendute dai parenti ad aspiranti mariti per somme che si aggirano attorno ai 2000 dollari.
Ma essere clandestino vuol dire, soprattutto, non esistere per le autorità. Nell’aprile 2016, con un blitz la polizia libanese ha sgominato a Jounieh una banda che costringeva 30 profughe siriane a prostituirsi anche 10 volte al giorno. Il locale usato per adescare i clienti, lo Chez Maurice, aveva funzione di dormitorio e di prigione per le giovani, ammassate in uno spazio in precarie condizioni igienico-sanitarie.
La testimonianza
“Per lungo tempo non ho avuto fede dopo ciò che ho subìto perché, quando eravamo picchiate, ho detto – Dio ti prego salvaci!- e uno dei miei carcerieri ha risposto: – Pensi che Dio possa aiutarti, p*****a? Non potevamo pronunciare il nome di Allah neanche nei nostri cuori” racconta, all’indomani della liberazione, una delle siriane segregate. Alcune immagini, trasmesse dalla tv libanese Aljadeed, impressionano per la crudeltà degli aguzzini. Ma come erano arrivate allo Chez? Dietro la prospettiva di una buona paga, lavorando come inserviente nel locale di Jounieh. Ma una volta caduti nella trappola, uscirne è difficile:
“Dissi loro che non mi sarei mai prostituita. Mi hanno detto che l’avrei fatto, lo volessi o no. Poi, hanno cominciato a picchiarmi, finché mi sono arresa e ho detto: ‘Sì, lo faccio’”. Oltre alle 30 del Maurice, in quella stessa operazione altre 35 schiave sono state liberate dalla polizia. L’età conta molto nel mercato del sesso perché, va da sé, più la “merce” è giovane più il prezzo aumenta. In Turchia, altro paese che ospita un elevato numero di siriani meretrecio, lavoro nero e vendita di esseri umani sono fenomeni diffusi specie fra chi non è registrato nelle liste dei profughi. A pagare il prezzo più alto sovente sono i minori che arrivano oltre confine soli o senza passaporto: un uomo può acquistare e mettersi in casa due o più ragazzine, aggirando senza problemi le disposizioni turche in materia matrimoniale (il Codice civile del ’26 vieta la poligamia) proprio perché le sventurate non sono iscritte ad alcuna anagrafe dei rifugiati.
Il lavoro nero
La clandestinità alimenta anche un’altra piaga, quella del lavoro nero che affligge sia gli adulti sia i bambini. Secondo l’Unicef “con oltre 1,2 milioni di minorenni profughi sul suo territorio, la Turchia è lo Stato che ospita il più alto numero di bambini rifugiati al mondo […] Circa mezzo milione di bambini rifugiati in Turchia sono iscritti a scuola. Tuttavia, nonostante da giugno a oggi le iscrizioni scolastiche siano cresciute di oltre il 50%, più del 40% dei bambini siriani rifugiati in età scolare – circa 380.000 – restano esclusi dal sistema educativo” (nota del gennaio 2017).
Esclusione che non vuol dire solo non andare in classe, ma anche finire nei campi e nelle fabbriche con salari da fame ed esposti ai rischi di maltrattamento, di pedofilia e di infortuni.
In fondo, il limite fra clandestino e schiavo può essere molto sottile: persone invisibili alla società che, per sopravvivere, sono costrette ad accettare prepotenze e sopraffazione. Un’invisibilità che, secondo fonti diverse, condividono nel mondo fra i 20 e i 45 milioni di individui: i bambini dei postriboli thailandesi, le ragazze del Bangladesh avviate alla strada in Medio Oriente e in Europa, il sottobosco di lavoratori clandestini tagiki e uzbeki che vivono in Russia. O ancora le vittime del traffico che attraverso le rotte sahariane giungono fino alle coste del Mediterraneo e, nel sud Sahara, gli Harratini di Mauritania, una comunità di discendenti di schiavi che ancora oggi subisce isolamento e segregazione, solo per citare alcuni dei molti casi di tratta e di riduzione in schiavitù che continuano a proliferare anche grazie alla insufficiente conoscenza che l’opinione pubblica ha del fenomeno.