“Ti scipperò la testa, non ti salverà nessuno, neanche l’esercito. Da ora in poi sarò il tuo incubo”. Parola di Giambattista Ventura, fratello di Filippo Ventura, quest’ultimo considerato dalla Direzione Nazionale Antimafia il capomafia di Vittoria, comune del Ragusano. “Titta”, come viene chiamato in città, aveva così apertamente minacciato il giornalista Paolo Borrometi, colpevole di aver pubblicato alcuni articoli nei quali venivano riportati gli interessi criminali e le attività illecite della famiglia malavitosa. In particolare Ventura lavorava come semplice operario nell’omonima agenzia funebre di famiglia, che però era intestata a una terza persona. Un escamotage, secondo il giornalista, per poter tenere aperto l’esercizio commerciale, visti i carichi pendenti e i processi in corso a suo carico.
Di recente il Tribunale di Ragusa ha condannato in primo grado Filippo Ventura a un anno e otto mesi di reclusione, oltre al pagamento delle spese processuali e dei danni subiti, per tentata violenza privata con l’aggravante della recidiva nei confronti di Borrometi, direttore del sito di informazione la Spia, che da circa due anni vive sotto scorta. Una sentenza che crea un precedente, per l’appoggio dato sia dall’Ordine dei giornalisti (Odg) che dalla Federazione nazionale stampa italiana (Fnsi), quest’ultima costituitasi per la prima volta come parte civile in un processo a fianco di un cronista minacciato.
“La giustizia ha vinto perché un piccolo tassello è stato aggiunto: nessuno deve avere la possibilità di minacciare e di rimanere impunito – spiega Paolo Borrometi a Ofcs Report – quelle minacce erano per nome e per conto del boss, per cui è un primo e incoraggiante segnale per tanti colleghi che subiscono soprusi o intimidazioni nel denunciare facendo nomi e cognomi”.
Il riconoscimento della violenza però non sembra far dormire sogni tranquilli al cronista siciliano. Sono 107 le denunce da lui partite grazie alle inchieste giornalistiche svolte sul territorio ragusano. Racket, droga, interessi nel mercato ortofrutticolo e traffico d’armi: i clan iblei continuano ad alimentare i loro traffici sul territorio di quella che Leonardo Sciascia definiva la provincia “babba” rispetto al fenomeno mafioso. Ragusa invece continua a caratterizzarsi per la preoccupante presenza sul suo territorio – secondo quanto ricostruito dalla Dna nella relazione semestrale del 2016 – “di sodalizi riconducibili alla stidda gelese, la cui influenza si estende sino agli abitati di Vittoria, Comiso, Acate e Scicli, e di famiglie appartenenti a Cosa Nostra legate agli Emmanuello di Caltanissetta”.
“Essere minacciato da più clan mafiosi vuol dire che se tu condanni un mafioso lo togli dalla sua realtà, ma ciò non basta a risolvere il problema – continua Borrometi – perché un clan è fatto di centinaia di persone, tra reggenti e affiliati, lo sappiamo tutti come funziona. Mi preoccupa di più quello che hanno detto i pentiti durante il processo: ovvero che Titta Ventura era il responsabile dell’affiliazione dei soggetti al clan, per cui in attesa di conoscere le motivazioni della sentenza, rimane ancora una partita aperta”.
Ci sono almeno altri 4 processi da celebrare nei pensieri di Borrometi e altrettanti dovrebbero svolgersi l’anno prossimo. A partire da quello contro Venerando Lauretta, mafioso locale già condannato al 416-bis, indagato per essere il socio occulto del box 65 del mercato ortofrutticolo di Vittoria (il più grande del Sud), che ha minacciato in maniera cruda il giornalista con un post su Facebook: “Il tuo cuore verrà messo nella padella e poi lo mangerò”.
Aggressioni che non sono scaturite solo dalle denunce sulle agromafie, ma anche da quelle sulle piazze di spaccio. In questo caso la minaccia è arrivata dalla viva voce di Anna Maria Brandimarte, figlia del boss Michele, ‘ndranghetista ucciso a Vittoria nel dicembre 2014. “Fanno bene a prenderti a schiaffi, come sta facendo il suo lavoro le posso dire che non ci sta piacendo”, gli ha urlato al telefono la donna, infastidita dal fatto che fosse stato tirato in ballo il nome del defunto padre in una serie di ricostruzioni sui presunti contatti tra la famiglia Brandimarte e il clan Piromalli-Molè per la gestione del traffico di stupefacenti nel porto di Gioia Tauro.
“I clan di Vittoria della Stidda mi hanno condannato a morte, ma anche quelli della provincia di Siracusa e alcuni esponenti della ‘Ndrangheta, ma io continuo ad andare avanti e lo devo anche al grande affetto dimostratomi sin dall’inizio della mia attività dalla gente comune – sottolinea Borrometi – ringrazio anche quei ragusani che continuano a ignorare il problema nascondendo la luna con un dito: contro la mafia serve uno scatto culturale, a prescindere dal lavoro mio e di altri colleghi nel denunciare gli interessi criminali”.