Dopo qualche mese di attesa, e dopo numerose speculazioni sul dove e come sarebbe intervenuto per la prima volta, Donald Trump ha finalmente scoperto le carte della sua nuova politica estera, inaugurando di fatto un nuovo corso interventista da parte degli Stati Uniti.
Il blitz in Siria, pur atteso da tempo, ha scatenato, come era ampiamente prevedibile, una reazione a catena delle cancellerie degli stati “canaglia”, come la Corea del Nord, sempre bisognosa di strumentalizzare le conseguenze politiche di situazioni anni luce distanti da Pyongyang, al solo fine di aumentare il proprio consenso interno. Proprio mentre era in corso il vertice Usa-Cina con il presidente Xi Jinping, Trump ha voluto lanciare un monito sia agli alleati europei, da sempre riluttanti a intervenire in modo deciso in Siria e sia, soprattutto, alla stessa Cina, principale sponsor del regime comunista nordcoreano. Che il rapporto tra i due vicini di casa asiatici non sia più, e da tempo, lo stesso degli anni della guerra fredda è noto: il nuovo corso del terzo Kim, molto più deciso del padre rispetto all’avanzamento dello sviluppo tecnologico atomico, ha determinato un progressivo allontanamento tra i due storici alleati.
Un quadro che ricorda accordo tra il Segretario di Stato Kissinger e il Primo Ministro cinese, Zhou Enlai, durante la guerra Vietnam
Mentre al largo delle coste della penisola si aggira, minacciosa, la portaerei americana Vinson, il regime di Pyongyang continua a sostenere pubblicamente la necessità di dotarsi dell’atomica per difendersi dalla nuova politica imperialistica statunitense
e a prepararsi per il prossimo test atomico che andrà ad aggiungersi alla numerosa serie di provocazioni che la Corea del Nord predispone con attenzione, da anni, per alzare il livello di allerta.
Una semplice provocazione? Di certo, nonostante la prova muscolare in atto, lo show-down Usa in Corea appare alquanto improbabile, e non solo per il rischio di una deflagrazione ma anche, e soprattutto, per le eventuali conseguenze nel difficilissimo e complesso apparato di accordi tra Usa e Cina, non potendo Pechino permettersi un simile conflitto proprio nel suo giardino di casa. Ecco come l’opzione più probabile per Washington sia, allora, il mantenimento dello status quo, magari con l’opzione, sul tavolo da tempo, di un lavoro dei servizi per sostituire Kim alla guida del regime comunista coreano con un parente (o un alto militare) più incline ai miti consigli cinesi. Un’opzione, questa, che permetterebbe a Trump non solo di cantare vittoria e di ritagliarsi un ruolo notevole con l’alleato strategico cinese ma,
aspetto più importante, di inaugurare una nuova politica distensiva proprio con l’unico attore internazionale capace di tenere testa all’ambiziosa Russia. Un quadro che, seppur ai margini del fantapolitico, ricorderebbe molto lo storico accordo tra il Segretario di Stato Kissinger e
il Primo Ministro cinese Zhou Enlai durante la guerra del Vietnam. Un fantasy o un ritorno preponderante al nixonismo?
aspetto più importante, di inaugurare una nuova politica distensiva proprio con l’unico attore internazionale capace di tenere testa all’ambiziosa Russia. Un quadro che, seppur ai margini del fantapolitico, ricorderebbe molto lo storico accordo tra il Segretario di Stato Kissinger e
il Primo Ministro cinese Zhou Enlai durante la guerra del Vietnam. Un fantasy o un ritorno preponderante al nixonismo?