“E’ un grande risultato ma per noi è solo un punto di partenza. Adesso lavoriamo con la consapevolezza di dove vogliamo arrivare”. A dirlo a Ofcs Report è Marcello D’Amelio, professore di fisiologia e neurofisiologia del Campus Bio-Medico di Roma e direttore di neuroscienze molecolari all’Irccs Fondazione Santa Lucia di Roma. D’Amelio è il coordinatore della ricerca tutta italiana, pubblicata nella prestigiosa rivista medica ‘Nature Communication’ sulla scoperta dell’origine dell’Alzehimer.
Professore, avete raggiunto un grandissimo risultato con la vostra ricerca, di cosa si tratta?
“Premetto una cosa fondamentale: per la malattia di Alzheimer non c’è ancora una terapia e i farmaci disponibili hanno la funzione di modulare alcuni sintomi della malattia ma non di determinare un recupero funzionale del paziente e questo studio non ha individuato terapie efficaci. Il fatto di spingerci sempre di più nella conoscenza dei meccanismi di malattia è fondamentale nella messa a punto di prossime terapie”.
Qual’è la storia dell’Alzehimer?
“Già nell’800, secolo in cui sono state fatte le prime osservazioni, si pensava che le placche che troviamo nel cervello dei malati di Alzheimer fossero la causa della malattia, ma in realtà iniziamo a convincerci che esse possano essere un effetto di malattia piuttosto che la causa. Parliamo di una malattia neurologica degenerativa e progressiva che ha un esordio subdolo e ingannevole. Spesso si presenta sotto forma di disturbo dell’umore e perdita di memoria. Infatti in questa patologia le due cose vanno talvolta di pari passo. Fino a ora l’area interessata e studiata è stata quella dell’ippocampo che è legata alla funzione della memoria”.
Quali sono le novità emerse grazie al vostro lavoro?
“Noi nel nostro studio abbiamo verificato che la riduzione della funzione della memoria non è legata alla degenerazione dell’ippocampo bensì alla degenerazione precoce di un’area profonda del cervello, l’area tegmentale ventrale che contiene un piccolo gruppo di neuroni che producono la dopamina. Quest’ultima non è importante solo per l’ippocampo ma anche per le aree del cervello che regolano l’umore. Una distruzione di questi neuroni può comportare una riduzione della disponibilità di dopamina e così l’insorgenza dei primi sintomi della malattia”.
Per i pazienti quali sono i vantaggi?
“Per il paziente è una bella notizia. Adesso abbiamo la consapevolezza dell’area che è precocemente degenerante. E’ un buon punto di partenza”.
Per quanto riguarda le terapia invece?
“Dal punto di vista terapeutico la scoperta che questi neuroni, che si trovano nel mesencefalo, sono i primi a morire, è grandiosa. Ora sarà moderatamente più semplice individuare i farmaci in grado di proteggere questi neuroni che risultano più suscettibili alla malattia. Anche dal punto di vista della prevenzione è un buon passo”.
Adesso cosa succederà?
“Già alcuni centri clinici stanno applicando tecniche neuro radiologiche per verificare l’attività di queste aree del cervello, ed è notevole. Ora l’obiettivo è capire i meccanismi di morte di questi neuroni e valutare l’efficacia di farmaci in grado di ridurre o auspicabilmente bloccare i processi di morte cellulare. Pertanto questo lavoro è solo l’inizio e la strada è ancora lunga. Abbiamo fatto tanto ma continueremo a farlo. Spero e vorrei che ora anche altri gruppi in altre parti del mondo seguano il nostro studio così che, lavorando virtualmente tutti insieme, si faccia squadra e si riesca a fornire maggiori informazioni al più presto”.