Velo sì, velo no. Il quesito, posto alla Corte Europea da una donna islamica licenziata perché indossava il velo, ha avuto risposta. “Il divieto di indossare un velo islamico, se deriva da una norma interna di un’impresa privata che vieta di indossare in modo visibile qualsiasi segno politico, filosofico o religioso sul luogo di lavoro, – ha scritto la Corte di Giustizia Europea – non costituisce una discriminazione diretta fondata sulla religione o sulle convinzioni personali”. Una pronuncia, quella del massimo organo giuridico dei 28 stati Ue, che è destinata a far discutere, e non poco.
La questione era stata sollevata in Francia da una dipendente che era stata allontanata dal posto di lavoro per essersi rifiutata di togliere il capo caratteristico nelle donne fedeli alla religione islamica. Oltre dieci anni fa, nell’aprile del 2006, la signora aveva informato i vertici dell’azienda in cui era impiegata, la G4S, spiegando che avrebbe continuato a indossare il velo durante l’orario di lavoro. Una regola non scritta all’interno dell’azienda invitava già i dipendenti a non indossare o fare mostra di simboli e indumenti che potessero identificare l’appartenenza politico-religiosa. E questo atteggiamento dell’azienda era già noto nel 2003, l’anno in cui Samira Achbita fu assunta.
La perseveranza della donna portò l’azienda a rendere più chiara la policy, rendendola scritta, fino ad arrivare alla decisione della Corte. «La norma interna non implica una disparità di trattamento direttamente fondata sulla religione o sulle convinzioni personali» ha stabilito la sentenza. Tuttavia, ha precisato la Corte, potrebbe insorgere il problema di una discriminazione indiretta del dipendente, nel caso in cui alcuni simboli o indumenti, come nel caso del velo, vengano tollerati a scapito di altri.
Il dispositivo aiuterà le aziende a mantenere senz’altro una linea più neutrale nei confronti della clientela e a evitare eventuali incidenti diplomatici. Ma quale potrebbe essere nei fatti l’attuabilità della decisione della Corte di Giustizia Ue? Un precedente, di natura non identica ma simile alla decisione presa in Lussemburgo, può aiutare a capire quale potrebbe essere la doppia valenza del contenuto.
Da oltre sei anni in Francia è fatto divieto di indossare nei luoghi pubblici il niqab, il velo che lascia scoperti solo gli occhi, e il burqa, abito che copre interamente la figura femminile in uso presso in Talebani. La legge, dal nome “Interdisant la dissimulation du visage dans l’espace public”, fu promulgata nell’ottobre 2010 dal governo di Nikolas Sarkozy, attraverso l’allora Guardasigilli, il ministro Michèle Alliot-Marie. La pena stabilita dal provvedimento per i trasgressori fu fissata a una multa da 150 euro in alternativa a uno stage di cittadinanza. Secondo quanto stimato dalle autorità transalpine, in Francia nel 2010 erano circa 2mila le donne che indossavano i veli proibiti.
Ma che effetto ha avuto la legge? Non dei migliori. Stando ai dati del ministero della Giustizia aggiornati al 2015, anno in cui la legge compiva i primi 5 anni di vita, sarebbero state 1500 in totale le multe notificate per aver trasgredito alla legge del ministro Alliot-Marie. In prevalenza, le donne che avevano violato la disposizione del governo francese sarebbero state in gran parte residenti a Parigi e nel Nord del paese. Un primo bilancio, tracciato dai vertici della polizia francese, si schierò per il fiasco dell’iniziativa legislativa di Sarkozy. I controlli infatti per le forze di polizia divennero sempre più rari per le difficoltà a intervenire in contesti molto reazionari alla norma. Basti pensare ai disordini scaturiti in seguito al fermo di una donna nel 2013 a Trappes, nella banlieue settentrionale di Parigi. D’altra parte c’è il fattore del nemico comune: le comunità mussulmane avrebbero fatto fronte contro la legge anti-velo, tanto che il provvedimento sarebbe diventato una molla per il proselitismo.
Il provvedimento della Corte di Giustizia quindi, presumibilmente, non avrà vita facile viste le difficoltà incontrate in Francia nel far rispettare una norma molto simile, pur essendo le aziende più facili da controllare delle migliaia di spazi di pubblico utilizzo.
Alla vigilia delle elezioni in Olanda e delle polemiche con il governo turco per un mancato approdo, con scopi politici, di un esponente della fazione di Erdogan, la sentenza pronunciata in Lussemburgo può diventare una lama a doppio taglio, soprattutto per le strumentalizzazioni politiche in un clima già teso.
Soprattutto in Olanda, dove l’ascesa dei populisti è indissolubilmente legata allo scontro con le comunità musulmane.