Che il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan stia da anni tentando di accentrare sempre più poteri sulla sua figura non è esattamente una novità. Ma è il 16 aprile che si scopriranno ufficialmente le carte, e i turchi decideranno se ufficializzare o meno la trasformazione del Paese dal sistema parlamentare attualmente vigente a quello presidenziale, sul modello statunitense. Un modello a cui il “sultano” Erdoğan non ha mai nascosto di ambire.
I sondaggi riguardo al risultato del referendum di metà aprile riflettono sostanzialmente un testa a testa tra il fronte del Sì (per concedere più poteri all’attuale presidente) e quello del No. Ma se anche il voto si annuncia essere discretamente libero, la campagna referendaria appare ben distante dall’essere definita giusta ed equa, anche alla luce delle attuali politiche di repressione del dissenso, messe in atto a seguito del fallito colpo di Stato della scorsa estate, e il perdurante stato di emergenza, in opera ufficialmente in risposta all’impressionante serie di attacchi terroristici susseguitisi in Turchia negli ultimi mesi.
Inutile dire a vantaggio di quale delle due posizioni questa situazione di estremo controllo e tensione vada. Un esempio? Poche settimane fa İrfan Değirmenci, noto volto della rete televisiva Kanal D, è stato immediatamente licenziato dopo essersi espresso, con non troppo velati riferimenti in una serie di tweet, contro chi vedesse come nemici dello Stato tutti quelli che supportavano le ragioni del No. Dimissioni, quelle di Değirmenci, che hanno inevitabilmente finito per instillare un vivace timore a esporsi in tutti quelli che sono contro il sempre maggiore accentramento di poteri da parte del presidente turco. Dimissioni che, in altre parole, minano fortemente le possibilità di fare efficientemente campagna per il No, anche nelle prossime settimane. La motivazione ufficiale dell’allontanamento di Değirmenci, secondo un comunicato ufficiale rilasciato dalla rete, sarebbe stato l’aver infranto il regolamento interno sulla neutralità del gruppo editoriale nel merito del referendum. Tuttavia tale rigidità non sembra trovare applicazione uniforme all’interno del gruppo, e i sostenitori del Sì pontificano abitualmente dalle colonne di Hürriyet, quotidiano formalmente “neutrale” appartenente appunto allo stesso gruppo.
In effetti la maggioranza dei media del Paese sono più o meno ufficialmente schierati in favore del governo di Erdoğan, e questo anche grazie alle epurazioni dei media e delle testate più critiche sul mercato editoriale messe in atto dal presidente negli ultimi anni. Ma è soprattutto dopo il fallito colpo di Stato che la mano del presidente si è abbattuta contro i media “nemici”: sono centinaia i giornalisti in qualche modo esautorati (spesso grazie alla carcerazione), mentre risultano essere più di 150 i canali e le testate chiuse con la forza da luglio ad oggi. Emblematico, in tal senso, il commento di Reporter Senza Frontiere nel 2016 in merito alla libertà di stampa in quello che fu il paese di Ataturk: “È difficile trovare una famiglia o un magnate editoriale al cui matrimonio il presidente Erdoğan non abbia presenziato, come ospite o testimone di nozze”.
Ma le divisioni all’interno della società turca non si fermano alla lotta del presidente contro i media avversi al tentativo di riformare la costituzione. Anche le possibilità di dibattito dimostrano di essere sempre meno, e sempre più pericolose. Un rappresentante sindacale è stato attaccato a colpi di arma da fuoco poche settimane fa ad Ankara, subito dopo essersi esposto pubblicamente per il No. Mentre due donne sarebbero state aggredite fisicamente mentre distribuivano volantini per il No, venendo accusate di “minacciare lo Stato”.
La posizione del presidente turco in questo clima tesissimo tuttavia non è sicuramente quella del paciere. In un recente comizio, Erdoğan ha per esempio paragonato i sostenitori del No ai membri del PKK, il partito filocurdo (messo al bando) autore di numerosi attacchi terroristici negli ultimi trent’anni. Non il miglior paragone per calmare le sempre più agitate acque di un Paese le cui libertà sono ormai logorate dal continuo e perdurante stato di emergenza.
Ma gli sforzi del presidente per assicurare la vittoria del Sì, protendono in ogni direzione. Compresa quella della Germania di Angela Merkel, dove risiedono circa 1.4 milioni di cittadini turchi, che avranno diritto di voto nel referendum di aprile. Paese, quest’ultimo, contro cui Erdogan ha scagliato la propria ira, definendolo “ancora nazista”, dopo il diniego dell’autorizzazione di diverse città teutoniche allo svolgimento di alcuni comizi da parte di rappresentanti politici turchi, chiaramente a supporto del Sì. I rapporti della Turchia con la Germania sono stati inoltre messi duramente alla prova la scorsa settimana, dopo l’arresto del giornalista turco-tedesco Deniz Yucel, membro della redazione di Die Welt, accusato di essere parte del PKK e allo stesso tempo una spia tedesca, e tuttora in custodia da parte delle autorità turche.
Un altro comizio si sarebbe dovuto tenere l’11 aprile a Rotterdam, nei Paesi Bassi, città sede di una nutrita comunità turca, dove tuttavia il governo olandese (che si recherà alle urne per le elezioni politiche il 15 marzo, a pochi giorni di distanza) ha fatto sapere di giudicare l’evento come “indesiderabile”, causando di fatto il suo annullamento.
Quanto questi dinieghi influenzeranno le possibilità di successo del “sultano” Erdoğan al referendum è impossibile a dirsi a priori. Quel che è invece certo è il suo assoluto strapotere sui media nazionali. “Non ci sarà alcun divieto a esporre le ragioni del No in campagna referendaria. Ma farsi sentire sarà tutto un altro paio di maniche” scriveva a inizio febbraio Hürriyet. Difficile pensare che le cose siano cambiate in questo mese, e che cambieranno nei prossimi giorni. La parola ai turchi.