La “Civil March for Aleppo“, che il 26 dicembre è partita da Berlino, è ora arrivata in Slovenia. Più di duemila persone da tutt’Europa vi hanno preso parte per denunciare la crisi umanitaria dimenticata e la guerra che non si ferma: il 24 febbraio l’ennesima strage ad est di Aleppo ha ucciso 60 persone. Un duplice attacco kamikaze ad al-Bab, riconquistata dalle forze turche. Si tratta dei primi raid aerei dell’Iraq su obiettivi del Califfato in Siria.
Anche se la parte centrale di Aleppo è stata ufficialmente liberata a dicembre e decine di migliaia di civili hanno finalmente potuto abbandonare la zona orientale della città, per gli uomini e le donne in Siria la vita non è cambiata. Molte città continuano a essere circondate, mancano i generi alimentari e i medicinali. In un recente rapporto di Amnesty International viene reso noto che nel carcere militare di Sednaja sono stati finora giustiziati 13 mila uomini.
Aleppo come Hiroshima.
I medici descrivono lo stato di emergenza in cui vive la popolazione. Lo fanno in modo efficace ricorrendo ad un’immagine impressa nella memoria e nell’immaginario collettivo, quella di Hiroshima rasa al suolo da un attacco nucleare al termine della Seconda guerra mondiale. L’embargo impedisce i soccorsi medici e la minaccia dei jihadisti di Al Nusra è ancora incombente. Una situazione umanitaria davvero critica, dove manca tutto: acqua, elettricità, riscaldamento. Sono proprio i bisogni più elementari quelli di cui necessitano gli aleppini: in primis l’acqua, il cui flusso dalla città di Raqqa è stato bloccato da ormai due mesi dal sedicente Stato Islamico, lasciando privi di questo bene vitale circa 3 milioni di persone.
I Forrest Gump per la pace di Aleppo.
Camminare, camminare e camminare. Incontrando persone e situazioni diverse in ogni paese per avvicinarsi alla Siria in gruppo. E’ questo che fa la Civil March for Aleppo per evitare il silenzio. Quando Anna Alboth, l’organizzatrice della Marcia, poco prima di Natale pubblicò il suo video, il mondo intero sembrava atterrito: i media e il web dipingevano il 2016 come “l’anno orribile” per i conflitti. Tweet e immagini sul web portavano quegli orrori dalle regioni di crisi ai nostri salotti, in tempo reale, senza mediazioni. Le reazioni: altri tweet, meme, gif e una scoraggiante sensazione d’impotenza, ma niente di più.
Anna stessa si è sentita per lungo tempo impotente. A Berlino vive con la sua famiglia, due bambini e Thomas, il suo compagno tedesco. Insieme a lui ha deciso di agire, ha avuto l’idea della marcia di protesta da Berlino ad Aleppo e, con lui, ha lanciato l’appello. OFCS.report ha intervistato Anna Alboth per capire come è nata l’idea di una Marcia per Aleppo: “Semplicemente ne avevo abbastanza di vedere video da casa e non agire – spiega – Dopo aver visto ciò che sta accadendo in Siria, dopo aver trascorso un sacco di tempo con i siriani a Berlino, questa guerra mi ha toccata più da vicino. Credo nel verbo fare. E questa marcia è qualcosa che sono in grado di fare. Non sono un politico, non sono un esperto. Sono una madre di Berlino, che ne ha abbastanza. E mi piace provare a costruire un mondo migliore. Fino a quando si fa quello che si può, non c’è nulla da perdere”. Uno degli obiettivi dell’iniziativa è rompere il silenzio dei media sulla guerra ad Aleppo. “Noi tutti vogliamo mostrare qualcosa – racconta ancora Anna – A noi stessi che non siamo passivi e che possiamo lottare per qualcosa, non solo votare per i politici e le elezioni ma guardare e giudicare ciò che stanno facendo. Con le nostre famiglie, bambini, amici vogliamo dire ai nostri politici europei che non siamo d’accordo e vogliamo lottare per i valori in cui crediamo. Chi sono i responsabili di questo conflitto? Perché non si rendono conto che non si può vivere in un mondo così? E, cosa più importante, vogliamo mostrare ai civili siriani che noi siamo con loro”.
L’organizzatrice racconta poi una giornata tipica all’interno della Marcia per Aleppo e sulle persone che la seguono. “Abbiamo avuto più di 2000 persone sul tabellone già – riprende – A volte 30, a volte 300. Ogni giorno la marcia assume un aspetto diverso, perché la squadra di manifestanti è diversa, ogni giorno camminiamo e attraversiamo luoghi diversi. Abbiamo camminato già più di 1000 chilometri, attraversato Germania, Repubblica Ceca, Austria e ora siamo in Slovenia. Abbiamo incontrato molte persone sulla strada (quelli che ci ha ospitato, che hanno condiviso le loro docce con noi, siriani, chi è venuto a dire ciao, i bambini nelle scuole dove abbiamo dormito, comunità locali, i curiosi…). Ma tutto sommato è un progetto di amatori, stiamo imparando tutto: come fare la prima colazione per tante persone, come camminare in sicurezza sulle strade, come gestire un dibattito pubblico con rispetto. Non è facile”. Punto di riferimento della marcia la realtà diversa di ogni Paese rispetto all’immigrazione. “A Praga – spiega ancora Alboth – molti migranti si sono mescolati alla marcia. In Germania molte persone sono arrabbiate, l’immigrazione non ha più controllo. In Repubblica Ceca non ci sono quasi siriani, e le persone sono molto più distaccate al tema delle migrazioni. Questo lo rende ancora più interessante e importante: per parlare con le persone che sono in disaccordo. L’idea della marcia era camminare non per caso. Volevo che tutti potessero aderire con facilità. Anche solo per 1 ora o 1 giorno. Si tratta di questo spazio: il ponte”.
Ora la marcia è in Slovenia. Il punto di arrivo, però, è la Siria. “C’è ancora tanta strada da fare – conclude l’organizzatrice -Ma, naturalmente, stiamo pensando a questo proposito: arrivati vogliamo parlare con gli esperti in Siria, parlare con i siriani stessi. Di sicuro non stiamo progettando di mettere il nostro gruppo in pericolo. O qualcuno in pericolo per proteggere noi. Ci sono piccole cose che però giorno dopo giorno possono cambiare le cose. Le persone prendendo parte alla marcia, tornano a casa con più idee ed energia per combattere. Iniziano i progetti, rimangono in contatto tra di loro e con i siriani che hanno incontrato. E più la gente parla della nostra marcia , più si parla di Siria. E più occhi cercano in direzione della Siria e più difficile è fare cose orribili lì. Alcuni dicono che lo stiamo facendo per noi stessi, in modo autoreferenziale. Ma se volessi fare qualcosa per me, chiuderei il pc e non penserei più alla Siria. In realtà la più grande crisi umanitaria al mondo è a sole 30 ore di macchina da noi. Io voglio stare con quelle persone, che sono esattamente come noi. Davvero riflettiamoci, potremmo essere nella stessa situazione e a quel punto non ci piacerebbe vedere qualcuno che marcia per noi”?