Le recenti e frenetiche trattative per l’inizio dei lavori congressuali del Pd hanno dimostrato in primo luogo a Matteo Renzi, e a tutti gli osservatori, i reali equilibri all’interno del principale partito di centrosinistra. L’asse da tempo collaudata tra Andrea Orlando e Dario Franceschini, favorevole a un cospicuo allungamento dei tempi rispetto alle intenzioni renziane, ha evidenziato in modo quantomai evidente che la componente vicina al segretario dimissionario è ben lontana dal controllo del partito. Superata, anche con una certa soddisfazione, la rottura con la sinistra Ds, che nel frattempo ha lanciato il movimento dei democratici e dei progressisti e si è schierata in modo strumentale verso il sostegno incondizionato al Governo Gentiloni, fino allo scadere della legislatura. Nel Pd è ora tempo di interrogativi.
Due sono le principali incognite. La prima è politicamente più rilevante: davvero Renzi, una volta ottenuta la sua riconferma a segretario nazionale, si impegnerà a sostenere Gentiloni fino a dicembre, data prevista per lo scioglimento delle Camere? La seconda è quella dello show-down: se davvero l’ex premier, per capitalizzare il consenso e rendere preponderante la spinta di una probabile vittoria, deciderà di “staccare la spina”: come e in quale occasione verrà creato “l’incidente”? Anche in questo caso le ipotesi si sprecano. In realtà sono due i passaggi ad alto rischio: quello dell’economia, legato alla redazione del documento di programmazione economica e finanziaria, e quello del definitivo via libera del disegno di legge giustizia, il quale, ormai da anni, si trascina nella navette di Camera e Senato.
Quest’ultimo passaggio in particolare si presta a parecchi rischi per una serie di veti incrociati che coinvolgono non solo il Partito democratico, ma anche i suoi principali alleati di maggioranza: Ncd e, a questo punto, il neonato movimento di Speranza, Rossi e D’Alema. Su questa iniziativa legislativa il ministro della Giustizia, come ha avuto spesso modo di ricordare e dichiarare, ci ha messo la faccia: definita una riforma prioritaria dallo stesso Gentiloni durante la richiesta di fiducia alle Camere, la riforma della giustizia appare come il passaggio più delicato per la tenuta della maggioranza. L’Associazione nazionale dei magistrati, in protesta contro il Governo, reo agli occhi del presidente Davigo di aver permesso lo snaturamento del testo iniziale, ha addirittura, in segno di protesta, disertato la tradizionale inaugurazione dell’anno giudiziario in Cassazione.
Ecco il punto: mentre la sinistra Ds sostiene ancora parte dei contenuti dell’emendamento Casson e strizza l’occhio all’allungamento dei termini di prescrizione, parte del Pd, specialmente quella che ingaggiò con i magistrati la lotta sulle ferie estive delle toghe, cerca di tardare il passaggio dell’esame in aula, spalleggiata dal Nuovo Centrodestra. La riforma della giustizia è diventata, di fatto, il campo aperto di battaglia tra i garantisti e chi ritiene di declinare in questo testo di legge le innumerevoli prese di posizione dell’ANM (ma anche del CSM). Il fatto che uno dei tre contendenti la segreteria del Pd sia, allo stesso momento, anche il “mentore” di questa riforma, fa (e, presumibilmente, farà) di questo appuntamento un autentico campo di battaglia politica con sgambetti annessi e connessi. Nonostante la cospicua forza mediatica di Michele Emiliano, per Renzi il vero rivale è – e non è un mistero – Andrea Orlando. Orlando è stato tra gli azionisti di maggioranza della sua segreteria e ha rappresentato per Renzi una garanzia per la solidità della sua maggioranza in assemblea.
Grazie all’apporto della corrente dei “giovani turchi”, ora completamente schierata – Orfini a parte – a sostegno della candidatura del ministro, Renzi ha potuto ingaggiare, in questi anni, un braccio di ferro con l’ex minoranza, avendo spesso e volentieri la meglio. Con la discesa in campo di Orlando, il “suo” disegno di legge rischia di diventare il pretesto per una battaglia di fuochi incrociati che potrebbe minare seriamente la tenuta del Governo Gentiloni. Al netto della probabile vittoria di Renzi, ora l’interrogativo è quello della composizione della futura assemblea del Pd, vero ago della bilancia della governance democratica del futuro. Siamo solo all’inizio e i colpi di scena non mancheranno.