“Ho dedicato la mia vita alla ricerca oncologica e sono sempre stata a favore dell’Eutanasia finché ho provato sulla mia pelle la terribile malattia e ho capito quanto la vita sia meravigliosa. Ho trovato la forza per andare avanti, affrontando la sofferenza e il dolore delle tante terapie e ora sono qui ma non sono un esempio di coraggio”. La storia di Sylvie Menard, ricercatrice oncologica, allieva di Umberto Veronesi, è un contributo importante nel dibattito sul Testamento Biologico. La racconta in un perfetto italiano addolcito da quell’accento francese che è forse l’unica lingua in cui la pronuncia del terribile termine “cancro” risulta meno ostile e antipatica.
Una testimonianza lucida, intensa, quella di una donna a cui la vita ha provato fin qui a togliere tutto, ma non la forza di andare avanti e la curiosità per un’esistenza che definisce a più riprese “meravigliosa”. Sylvie ha lavorato 45 anni all’Istituto nazionale dei tumori e quando il professor Veronesi ha lanciato l’idea del testamento biologico ha subito pensato: “Magnifico, ha perfettamente ragione, io in determinate situazioni fisiche o mentali penso che la vita non valga più la pena”.
Una vita da eutanasica convinta finché “qualche anno fa ho incontrato anch’io la malattia, il cancro. Un tumore avanzato – ricorda la ricercatrice – per molti inguaribile malgrado le tante terapie provate, le stesse che per tutta la vita per lavoro ho passato a mettere a punto”. Terapie molto pesanti da sopportare che l’hanno portata ad un passo dal mollare tutto: “Cosa faccio a fare delle terapie se poi non posso guarire? In un primo tempo ho rifiutato le cure, smentendo tutta la mia vita di ricercatrice. Pensavo: visto che devo morire preferisco farlo subito“, confessa.
Ma aveva dimenticato “un parametro” fondamentale nella vita di ciascuno di noi: il tempo. La vita, ci dice Sylvie con un italiano ancora più ingentilito dalla calata francofona, “è questa, è solo una questione di tempo. Quando nasciamo lo sappiamo che siamo destinati a morire, però da sani non ci pensiamo. Il pensiero della morte ci viene dinnanzi solo quando siamo malati. Oggi non ho paura di morire e questo concetto mi ha fatto cambiare completamente visione della vita”.
La grave malattia è come se l’avesse fatta rinascere. “La vita è semplicemente meravigliosa eppure ho fatto trapianti, terapie ad alto dosaggio, ho avuto degli episodi di sofferenza e dolore terribili”, dice tutto d’un fiato, come per ripercorrere velocemente l’interminabile parentesi del tumore. Ma nonostante la voglia di combattere e non arrendersi se provi a farle un complimento lei cambia tono e risponde: “Io sono tutt’altro che una persona coraggiosa, ma queste terapie le ho fatte e le rifarò fin quando ci sarà un briciolo di possibilità di vita. È solo grazie a queste terapie che ho visto nascere i miei nipoti e ho potuto fare tante altre cose”.
Il suo racconto ci aiuta a entrare nell’attualità di una legge sul testamento biologico che in Italia manca da sempre. “Vorrei che dal testamento biologico – dice rivolgendo un appello ai politici – toglieste la parola “dignità”. Non c’è nessuna malattia che è indegna di essere vissuta. Al posto di dignità io metterei la parola orgoglio. È il mio orgoglio che viene toccato se io devo vivere in determinate situazioni”.
Un’analisi schietta, come solo una persona che c’è passata due volte, prima come ricercatrice e poi come malata, può permettersi di fare. Per questo motivo, quando le chiediamo di entrare nel merito della legge appena approvata dalla commissione Affari Sociali della Camera, lei ha le idee molto chiare: “Il Testamento Biologico fatto da sano non ha alcun senso perché nessuno sa come reagirà davanti ad una malattia, io stessa non lo avevo previsto e non avrei mai pensato di essere pronta ad accettare quel dolore, la dipendenza e il cervello annebbiato. Tutte cose che ho accettato e di cui non ho un brutto ricordo”, afferma Sylvie. Questi testamenti, prosegue con voce ferma, “costeranno tantissimo alla comunità e sono completamente inutili. Attenzione a dire “se sono incosciente non voglio vivere”, sull’incoscienza non sappiamo niente. Abbiamo un milione di persone malate di Alzheimer, di cui una buona parte li consideriamo incoscienti, e che facciamo li ammazziamo tutti?“.
Le storie di solito sono parabole con un inizio e una fine, ma ci sono alcune di queste che seguono un percorso a parte e che hanno il grande merito di non farci soffermare sulla “fine”, perché ciò che veramente vale la pena di ascoltare è, appunto, il percorso. “Penso che la dignità stia da un’altra parte”, conclude la chiacchierata, e per questo “l’Eutanasia è solo un diritto che chiedono i sani, i malati non la vogliono, loro hanno bisogno di assistenza e aiuto“. E la possibilità di concedersi, come Sylvie Menard ripete con il suo instancabile accento francese, “una vita meravigliosa”.
@PiccininDaniele