Il referendum costituzionale in Tuchia, voluto dal presidente Recep Tayyip Erdogan, si farà. La Corte suprema elettorale ha indetto la consultazione per il prossimo 16 aprile. La riforma prevede la trasformazione del Paese in una Repubblica presidenziale. Una modifica già approvata dal Parlamento turco lo scorso 21 gennaio e firmata dal presidente Erdogan, suo maggiore sponsor, ma che richiede comunque il passaggio del voto dei cittadini.
Il passaggio al presidenzialismo trasformerebbe il presidente nel capo dell’esecutivo, con potere sulla nomina di Ministri, di sciogliere il Parlamento, dichiarare lo stato d’emergenza e intervenire anche sulla magistratura. Il presidente potrà nominare quattro membri del Consiglio superiore della magistratura, dove il sottosegretario alla giustizia avrà un seggio permanente. Una riforma fortemente voluta da Erdogan e dalla maggioranza dell’Akp che modificherà anche l’attuale assetto parlamentare, aumentando il numero dei deputati e abbassando l’età dell’elettorato passivo a 18 anni.
La macchina elettorale è già all’opera e la riforma costituzionale è l’ennesima occasione per Erdogan di presentare questo referendum come un appuntamento con la storia. Il presidenzialismo, secondo i suoi promotori, renderebbe il Paese più sicuro e più stabile ma, per le opposizioni, la riforma non farebbe altro che confermare il trend autoritario della Turchia e del suo governo. L’incertezza è tanta in un Paese continuamente bersaglio del terrorismo islamico e alle prese con la riorganizzazione del proprio esercito dopo il fallito golpe del luglio scorso. La riforma di Erdogan inciderebbe anche in questo senso, abolendo tribunali e commissioni militari, un chiaro segno della volontà del presidente di porre un freno allo strapotere dell’esercito nella vita pubblica del paese.
Il referendum è l’estremo tentativo di Erdogan e dell’Akp di riformare la politica turca.
Un tentativo già provato due anni fa con risultati deludenti. In quella circostanza, a bloccare il sogno presidenzialista dell’ex premier furono gli elettori che diedero una sonora batosta all’Akp non permettendogli di guadagnare i due terzi del Parlamento, quota fondamentale per procedere alla riforma costituzionale presidenzialista. La situazione è cambiata, ma i sondaggi dipingono un paese spaccato, con il No alla nuova legge in vantaggio di diversi punti percentuali. Una perfetta fotografia dell’estrema polarizzazione della società turca.
Dalle proteste di Gezi Park del 2013, la Turchia è scivolata in un vortice di repressione, autoritarismo e terrorismo. Complice il contagio siriano, il paese è stato investito in pochi anni da un’ondata di jihadismo di ritorno che ha minato le basi della società, accrescendo paure e timori. I problemi legati alla sicurezza hanno favorito il governo di Erdogan e dell’Akp. Il ‘Sultabno’ si è presentato come difensore della patria, unico in grado di garantire stabilità e sicurezza non solo contro i nemici esterni, ma anche e soprattutto contro quelli interni. Giornalisti, politici di opposizione, attivisti dei diritti umani, magistrati, tutti finiti nel calderone dei nemici dello Stato di Erdogan e per questo vittime di arresti arbitrari, licenziamenti e vendette varie. Il tutto avvolto da un clima di delazione degno di una moderna inquisizione che alimenta all’estremo la polarizzazione. Il referendum non poteva arrivare in un momento peggiore. Ma potrebbe essere proprio questo clima da “securitate” a favorire la vittoria di Erdogan e a trasformare la Turchia in una Repubblica presidenziale o, come tanti analisti amano dire, in un sultanato 2.0.