La ‘ndrangheta chiama, i narcos rispondono. Sempre. Si snoda sul solido legame che lega i cartelli colombiani e messicani della droga alle organizzazioni criminali calabresi, il gioco che consente l’ingresso in Europa di tonnellate di cocaina ogni anno. Un gioco reso possibile dalla sconfinata liquidità finanziaria a disposizione delle consorteria di ‘ndrangheta, e da una rete capillare di contatti che legano le fazende del centro America alle capitali calabresi del malaffare.
I BROKER
E se a garantire la raccolta del denaro contante ci sono le ‘ndrine del mandamento Jonico e di quello Tirrenico (i Pesce, gli Aquino, i Pelle-Vottari, i Mancuso), a curare i rapporti con le organizzazioni paramilitari che gestiscono la produzione della cocaina ci sono veri e propri broker, che garantiscono per gli acquirenti (spesso consegnandosi ai narcos “in ostaggio” fino alla conclusione degli affari) a cui sono legati. Personaggi come Giuseppe Mercuri – arrestato martedì assieme ad altre 54 persone – che, per conto delle ‘ndrine del vibonese confederate alla famiglia dei potentissimi Mancuso di Limbadi, trattava direttamente per l’importazione di una tonnellata e mezzo di polvere bianca. Un gioco d’equilibri precari in cui Mercuri, sospettano gli inquirenti, era riuscito a mettersi in relazione con Jaime Cano Sucerquia, pezzo da novanta del clan “Usuga”, organizzazione paramilitare colombiana che spadroneggia nella regione dell’Urabà e in grado di garantire la produzione e lo stoccaggio di tonnellate di cocaina ogni anno. Marco Torello Rollero invece era di stanza a Rabat, in Marocco quando gli agenti dell’interpol, nell’estate del 2015, hanno messo fine a una latitanza che durava dal 2010. Rollero, per conto dei Pelle e dei Nirta di San Luca, nel reggino, era riuscito a creare un canale di approvvigionamento che garantiva alle cosche calabresi – e a quelle della camorra trapiantate nel quadrante sud est di Roma che a esse si erano temporaneamente confederate in una sorta di join venture criminale – cocaina purissima attraverso un hub in Spagna. E prima di loro erano stati personaggi come Bebè Pannunzi (che trattava, per conto del “Siderno Group” direttamente con il cartello di Meddellin, prima di essere arrestato dopo anni di latitanza), e Giuseppe Trimboli, arrestato a Caldas dai carabinieri del Ros e dall’intelligence colombiana, a tirare le fila di un traffico floridissimo tra i paesi di produzione e quelli di maggiore consumo.
PORTI APERTI
Sono i calabresi – questo dicono le decine di indagini dell’antimafia, della Dea e delle squadre antidroga degli stati produttori (Colombia e Messico in testa) – a “governare” il grosso della cocaina in transito in Europa. Un primato che i clan della ‘ndrangheta si sono ritagliati e hanno mantenuto negli anni anche grazie alla capacità delle ‘ndrine di assicurarsi numerose teste di ponte in grado di bypassare i controlli nei porti, recuperando i carichi di volta in volta nascosti in container di frutta, di legna, addirittura mischiati alle fibre di improbabili tappeti provenienti dai porti del centro America. E se Gioia Tauro (tra i primi porti europei per numero di container movimentati) si può considerare come hub principale (hub che viene usato praticamente da tutte le ‘ndrine calabresi che, sospettano gli inquirenti, pagano una “retta” alle quattro consorterie che storicamente si preoccupano degli affari fuori e dentro le banchine), negli ultimi anni le indagini hanno consentito di identificare anche altri scali, come porte d’ingresso per la polvere bianca in Europa: Civitavecchia, Livorno, Napoli e Genova. E poi la Spagna, l’Olanda e la Germania, paesi nei quali le cosche calabresi hanno trasferito affari e interessi da quasi 40 anni. Cambiano gli scenari, ma il meccanismo resta, di massima, sempre il medesimo: la cocaina viene caricata in porti come Guayaquil, in Ecuador o Puerto Limon, in Costa Rica, dopo essere stata marchiata con il logo del cartello che la produce e nascosta in container destinati a società di import export create dagli stessi acquirenti, in Europa. Una volta scaricato, il container (quando non viene individuato dai controlli, cosa che accade, denunciano amaramente gli investigatori, più o meno una volta su dieci) viene attenzionato dagli uomini del clan, spesso dipendenti del porto scelto come ingresso del carico, che si occupano di svuotarlo della “merce”, consegnandola agli emissari dei clan che penseranno a smistarlo capillarmente in Italia e in Europa.