Una mano sul sedere, una frase volgare, un ricatto fisico o morale. Definire cosa sia molestia per una donna, nell’ambiente lavorativo, non è solo un problema legale, ma anche culturale. Se “il lavoro nobilita l’uomo” non si può dire che lo stesso accada con le donne. Secondo l’ultima ricerca dell’Istat (datata 2010) una donna su due, dai 16 ai 65 anni, è stata vittima almeno una volta nella vita di molestie sul lavoro. Un dato impressionante, che ci pone di fronte ad un’urgente questione morale e culturale.
Carmine Ventimiglia nel suo libro “Disparità e disuguaglianze. Molestie sessuali mobbing e dintorni” spiega come la definizione di molestia assuma una connotazione differente se analizzata dal genere maschile o femminile: “Mentre il genere femminile tende a confrontarsi molto da vicino, materialmente e idealmente, con il rischio della molestia sessuale, l’uomo guarda la molestia da un’angolazione sicuramente più distante.”
Forse per questo, è solo parlando con chi ha subito una molestia, che si capisce cosa accade.
La vergogna, la tendenza a minimizzare l’accaduto, il senso di responsabilità verso l’uomo, prevalgono sulla consapevolezza di non essere nel torto e di meritare giustizia. La scelta più immediata è quella di fuggire, magari non raccontare a nessuno ciò che è avvenuto, perché ci si troverebbe vittime del proprio racconto, attaccate per un verso da chi non darebbe credito alla nostra storia, dall’altro da chi ci spingerebbe a renderla pubblica. Per questo molte molestie finiscono nel dimenticatoio della giustizia, chiuse nei ricordi di donne che ne portano il peso, più o meno limitante, nel percorso della loro vita e che, spesso, si ritroveranno ancora vittime. Rinchiuse in una catena a spirale che le obbliga a ritrovarsi magari sullo stesso posto di lavoro, per una necessità economica, o costrette a lasciarlo e quindi trovarsi di nuovo in una condizione di urgenza lavorativa.
Rinunciare al lavoro non comporta solo una perdita economica, ma anche di indipendenza, di esperienza, di consapevolezza e di libertà. Un prezzo che non può e non deve essere accettato. La domanda che rimbalza nella mente, fuori dai giudizi morali, è come un uomo ci possa mettere in quella condizione nel momento di maggior debolezza, il riposo dopo la giornata lavorativa. Una linea sottile tra la molestia e la violenza che non ammette nessuna risposta. Soprattutto se ci si trova di fronte chi negherà fino all’ultimo di aver fatto qualcosa di sbagliato. Alessia (nome inventato) è una di tante, troppe, ragazze che si sono dovute difendere da questo tipo di abusi.
Giovani, precarie e di buona scolarità, secondo lo Sportello Rosa Cgil, sono quelle più a rischio. Le associazioni come lo Sportello Rosa, che sono nate intorno a queste donne in difficoltà, sono in crescita e cercano a fatica di costruire un percorso di consapevolezza.
Più che un problema di reati, la ricerca ci poneva di fronte ad un fenomeno culturale figlio di una società maschilista e impoverita, e per questo incapace di garantire sicurezza e difesa a chi si ritrova vittima. Nemmeno l’1% delle donne infatti, sceglie di presentare denuncia. Un problema che limita anche la stessa vita aziendale. Per questo Confindustria, Cgil, Cisl e Uil hanno siglato nel 2016 un accordo che aumenta l’interesse verso il problema e cerca di moltiplicare le soluzioni: formazione adeguata, sanzioni certe, prevenzione e moltiplicazione dei centri d’ascolto.