Non si sono mossi per più di sette mesi, protestando immobili nell’accampamento di tepee fatto sorgere presso il letto del fiume Missouri, proprio dove volevano far passare l’oleodotto. Non si tratta però solo di un movimento ambientalista che cerca di proteggere un’ennesima fetta di natura minacciata, ma di migliaia e migliaia di nativi americani che difendono a tutti i costi risorse, come l’acqua e la terra, considerate (con buon senso, verrebbe da dire) “sacre” per la loro cultura.
Siamo a Standing Rock, una riserva indiana nel Nord Dakota, al confine con il Canada. Qui, dallo scorso aprile, sono cominciate a confluire numerose tribù, in maggioranza Sioux, dando vita alla più grande adunata di indigeni del Nord America registratasi negli ultimi cento anni.
Il nemico si chiama Dakota Access Pipe Line, un oleodotto dal costo di 3,7 miliardi di dollari e lungo 1.900 chilometri, progettato per trasportare il greggio estratto nei giacimenti di Bakken (con una portata di 450 mila barili al giorno) dall’estremo Nord americano fino al profondo sud del Texas. Tra gli investitori del progetto c’è anche lui, Mr. Donald Trump, il neo-eletto 45° presidente degli Stati Uniti d’America, finanziato nella sua campagna elettorale anche dalla Energy Transfer Partners, proprio la società costruttrice della pipeline.
Questo movimento di protesta, divenuto globale anche grazie ai social network, ha difeso con ostinato coraggio una delle più grandi riserve d’acqua del Paese, il sistema idrico del fiume Missouri, responsabile dell’approvvigionamento per 17 milioni di persone. Il 15 novembre scorso, in oltre 300 città del mondo, sono state organizzate manifestazioni di supporto e grazie ad una App creata ad hoc su Facebook, oltre un milione di persone ha espresso la propria solidarietà alla causa.
Uno dei leader di questa battaglia, il Sioux David Archambault II, si era presentato al Consiglio per i diritti Umani delle Nazioni Unite per ricordare come la costruzione dell’oleodotto “Dapl” violasse la sovranità del suo popolo su quelle terre, riconosciuta dai trattati del 1851 e del 1868.
Le tribù dei nativi americani e gli attivisti (o meglio i “difensori” dell’acqua e della terra, come loro stessi si definiscono) non hanno indietreggiato neppure dinanzi alle numerose repressioni, spesso sfociate in violenze e abusi da parte delle forze dell’ordine. Negli ultimissimi mesi gli scontri sono andati intensificandosi, così come il numero degli arresti, giunto a più di 400.
L’accampamento, il Camp Oceti Sakowin, ha ricevuto a fine novembre l’ordine di sgombero per le tende e i prefabbricati abitati dai ribelli. La brutalità di alcuni interventi (mal) gestiti dagli agenti della contea di Morton, come l’uso di proiettili di gomma responsabili di numerosi ferimenti, di gas lacrimogeni, di idranti quando la temperatura era ben al di sotto degli zero gradi e di potenti riflettori per impedire il sonno agli accampati, ha convinto duemila veterani ad intervenire, circa una settimana fa, per fare scudo con i propri corpi tra la polizia e i “defenders”.
Domenica scorsa l’Army Corps of Engineers, ovvero il genio militare americano, ha comunicato che non autorizzerà la costruzione di questo tratto della Dakota Access Pipe Line.
I Sioux, le altre tribù indigene e tutti i “defenders” che li hanno supportati, hanno vinto. E lo hanno fatto quando tutto sembrava presagire un’ennesima sconfitta per i diritti umani, civili e ambientali. La Standing Rock Sioux Tribe ha scritto una nuova pagina nella storia dei nativi americani che, nonostante il nome, rappresentano solo l’1% della popolazione degli Stati Uniti, dopo essere sopravvissuti a secoli di persecuzioni per poi venire relegati in sempre più remote riserve spesso infiocchettate dalla presenza di tristi casinò.
“Tutti voi avete fatto sì che ciò accadesse – ha dichiarato Dave Archambault II, divenuto nei mesi il portavoce della Standing Rock Sioux Tribe – è solo grazie alla vostra presenza che abbiamo avuto l’attenzione del mondo intero”, ha concluso mentre annunciava la vittoria al suo gruppo.
Ora c’è da augurarsi che Trump, da subito dichiaratosi favorevole al progetto (al contrario di Obama che ha sempre riconosciuto la legittimità delle proteste) non spinga, appena insediatosi, i tecnici dell’Esercito verso un qualche ripensamento. Dal canto loro gli ingegneri, nel rifiutare il proprio beneplacet all’opera, hanno sia riconosciuto la pericolosità della stessa per le riserve d’acqua degli insediamenti indiani, sia invitato il consorzio costruttore a modificarne il percorso, riservandosi di riesaminare il progetto in seguito.
Insomma, stavolta la terra americana è rimasta miracolosamente sotto piedi (veramente) americani. Certo, resta il rischio di un futuro cambio di rotta da parte del Governo ed è molto probabile che, per questo motivo, resterà un presidio a vigilare sull’area. Ma la gente di Standing Rock non ha mollato finora, e difficilmente farà l’errore di distrarsi dopo questa vittoria storica, che testimonia come il combattere per ciò che si ritiene giusto riguardi ogni singolo individuo. “Oggi abbiamo dimostrato quanto siano potenti le voci delle persone quando si ergono tutte insieme in difesa della nostra acqua, senza la quale non potremmo vivere #NODAPL”, lo ha twittato ieri, direttamente da Camp Oceti Sakowin, la nativa Tulsi Gabbard, veterana e membro del Congresso.
In americano, quando si vuol dire a qualcuno di restare in gamba, si usa dire “stay rock”.
Sembra che a Standing Rock, sarà forse per la regola del nome omen, la sappiano già piuttosto lunga.