Dopo quattro settimane di assedio, i militari iracheni hanno conquistato vaste aree alla periferia di Mosul e si preparano per l’attacco finale. Nonostante i progressi, la città rimane ancora nelle mani del Califfato. I miliziani dell’Isis usano ogni mezzo per rallentare l’avanzata dell’esercito di Baghdad e dei suoi alleati. Cecchini, autobombe, attacchi suicidi e scudi umani, con queste escamotage i jihadisti provano a resistere, anche se la loro capitolazione è ormai questione di poco. Nei giorni scorsi, l’esercito regolare iracheno ha ripreso il controllo dell’antica città di Nimrud, un sito archeologico di valore inestimabile, preda della furia jihadista e simbolo di quell’eccidio culturale che ha sconvolto anche la siriana Palmira e altre numerose città storiche tra Iraq e Siria. Un successo dal forte valore simbolico che può galvanizzare le truppe sul terreno e fungere da spinta per l’assalto finale al centro di Mosul. La resa dell’Isis è imminente. Secondo diversi testimoni, il leader del gruppo terroristico, Abu Bakr al Baghdadi, avrebbe lasciato la città, segno che gli stessi luogotenenti delle armate del terrore considerano la battaglia per Mosul ormai perduta.
La capitolazione jihadista porta con sé una serie di orrori senza fine. Autobombe, impiccagioni, esecuzioni sommarie e anche l’accusa di utilizzare armi chimiche per proteggere la propria fuga. Solo nella giornata dell’8 novembre, secondo quanto riportato dalle Nazioni Unite, i tribunali dell’Isis avrebbero fatto impiccare ai lampioni stradali più 40 civili innocenti, accusati spiare per conto del governo iracheno. Una tragedia umanitaria senza fine, della quale sono accusate anche le truppe regolari di Baghdad e le milizie curde. Diverse Ong operanti in Iraq, tra cui Amnesty International e Human rights watch, hanno accusato gli iracheni di aver ucciso e torturato diversi civili nelle aree appena liberate. “Uomini con le divise della polizia federale, hanno eseguito diverse uccisioni illegali, catturando e poi uccidendo deliberatamente a sangue freddo residenti di villaggi a sud di Mosul”, ha dichiarato Lynn Maalouf, responsabile di Amnesty International a Beirut. Come Mosul, anche la città siriana di Aleppo si prepara per la battaglia finale. L’esercito siriano ha dato un ultimatum di 24 ore ai ribelli che ancora occupano la parte orientale della città. L’aviazione siriana ha lanciato migliaia di volantini sulle roccaforti ribelli, invitando gli uomini armati ad arrendersi: “Vi diamo 24 ore di tempo per prendere la decisione di uscire. Chi vuole la vita sicura deve lasciare le armi. E noi garantiamo la vita. Dopo la fine di questo tempo, comincerà l’attacco deciso con armi strategiche e useremo armi ad alta precisione”.
Le fazioni ribelli, tra cui figurano diversi gruppi jihadisti come Jabhat Fateh Al Sham, sono circondate. L’arrivo sulla costa siriana delle navi da guerra russe e della portaerei Admiral Kuznetsov, sono il segnale che l’offensiva finale è vicina. Una corsa contro il tempo per russi e siriani che, sfruttando il temporaneo vuoto di potere negli Stati Uniti a seguito delle elezioni presidenziali, possono chiudere con successo una partita cruciale per il futuro della Siria. Prendere Aleppo significa, per il governo di Damasco, potersi sedere al tavolo di pace tenendo il coltello dalla parte del manico e negoziare una transizione pacifica il più possibile gradita a Bashar al Assad e ai suoi alleati. La guerra civile siriana, ormai prossima a raggiungere il triste traguardo dei sei anni, può subire una svolta con il nuovo orientamento del neo presidente Usa, Donald Trump. Il tycoon, intenzionato a ristabilire buoni rapporti con Mosca, ha recentemente dichiarato di non considerare tra le sue priorità la cacciata di Assad dalla Siria. Un netto cambiamento di rotta che può essere la svolta per porre fine a un massacro che in cinque anni ha provocato mezzo milioni di morti.