Sono milioni le persone spinte ad abbandonare la loro casa e il loro paese d’origine. E gli sfollati in cerca di un posto sicuro, non sono solo coloro che fuggono da interminabili conflitti come quello più conosciuto in Siria, o quello meno attenzionato dello Yemen, no. Ci sono popolazioni che, anche in assenza di guerre e conflitti, si ritrovano costrette ad abbandonare le loro abitazioni per disastri e conflitti ambientali. Vengono chiamati “profughi ambientali” ma sono migrazioni che non rientrano nella tutela dal diritto internazionale, ovvero a queste persone non viene riconosciuto lo status di rifugiato ma vengono considerate tra i migranti economici. Negli ultimi otto anni è stato registrato un totale di 203,4 milioni di sfollati interni collegati a disastri e calamità naturali. E purtroppo Solo nel 2015, guerre, violenze e disastri naturali hanno prodotto 27,8 milioni di sfollati interni nel mondo. Di questi, 19,2 milioni per calamità naturali. Più del numero dei rifugiati in un anno.
Secondo gli ultimi dati del Global Report on Internal Displacement (2016) pubblicati dall’Internal Displacement Monitoring Centre, nel mondo ci sono 40,8 milioni di sfollati interni, il doppio dei rifugiati. Le aree più colpite? L’India (3,7 milioni di sfollati), la Cina (3,6milioni) e il Nepal (2,6 milioni). E come riportato sul dossier “Profughi ambientali” di Legambiente, termini come “cambiamento ambientale”, “stress ambientale” o “degrado ambientale” possono comprendere una varietà di fenomeni che necessitano di ulteriori specificazioni.
Diverse le categorie di cambiamenti ambientali, che potrebbero causare spostamenti di popolazione e che possono essere classificati in catastrofi naturali caratterizzate da rapida insorgenza (ad esempio terremoti, vulcani e inondazioni); variazioni cumulative o cambiamenti a lenta insorgenza (deforestazione, degrado del suolo, desertificazione); interruzioni accidentali o incidenti industriali (ad esempio incidenti di aziende chimiche o nucleari); progetti di sviluppo che impongono spostamenti di massa forzati (ad esempio dighe, grandi progetti d’irrigazione).
I cambiamenti climatici influenzeranno le migrazioni perché andranno ad intaccare fattori già esistenti. Dunque ingiustizia climatica e sociale hanno un legame, come si legge anche dalla pubblicazione dell’Associazione A Sud “Crisi ambientali e migrazioni forzate”. Sembra essere più pronunciato per il fattore economico e quello ambientale, seguito in misura minore, per il fattore politico. Tuttavia, i cambiamenti ambientali influenzeranno questi driver avendo un impatto, ad esempio, sui salari rurali, i prezzi agricoli, l’esposizione al rischio e la tutela degli ecosistemi. Se la migrazione avviene o meno dipende anche da una serie di fattori e caratteristiche personali e territoriali; in questo contesto è importante soffermarsi sulle nozioni di vulnerabilità, resilienza e riduzione del rischio che rappresentano un utile strumento per analizzare il degrado ambientale e prevederne l’impatto sui territori e sulla mobilità delle risorse umane, ma anche per gestirne i rischi e gli effetti attraverso specifiche politiche. Sulla base di tale approccio, la vulnerabilità è la capacità di un singolo o di gruppo di anticipare, far fronte, resistere e recuperare da condizioni avverse. Il grado di vulnerabilità riflette anche la resilienza, cioè la capacità di assorbire shock esterni e preservare le abitudini di vita di fronte al cambiamento ambientale.
La resilienza, in larga misura, dipende dall’accesso al capitale umano, sociale, politico e finanziario che consente agli individui, alle famiglie e alle comunità di recuperare dai disastri e adattarsi ai cambiamenti permanenti dell’ambiente. Anche nelle comunità più vulnerabili non tutti desiderano spostarsi, e non tutti coloro che vogliono muoversi sono in grado di farlo. Spesso i poveri sono meno qualificati e hanno poche opzioni per lo sviluppo di strategie di adattamento. A loro volta, i più ricchi possono essere in una posizione migliore per migrare, ma allo stesso tempo sono anche in grado di adattarsi e riprendersi meglio da questi eventi. Ad oggi la comunità scientifica, come riportato sempre nel dossier, ha evidenziato che i cambiamenti climatici avvenuti negli ultimi 150 anni sul nostro pianeta sono principalmente di origine antropica, ovvero derivanti dall’azione dell’uomo.
ll quarto rapporto dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC- il gruppo internazionale delle Nazioni Unite che studia il fenomeno dei cambiamenti climatici) già nel 2007 affermava che le concentrazioni di gas clima-alteranti nell’atmosfera stanno aumentando a un ritmo senza precedenti e che la maggior parte degli aumenti nella media delle temperature globali è molto probabilmente dovuta all’aumento osservato della concentrazione di gas serra causato dall’attività umana. Dati, questi, che dovrebbero far riflettere su quanto e come il nostro pianeta sia vittima di abusi e stupri a danno del suo fragile ecosistema. E questo avviene per mano di quegli stessi uomini che la abitano, troppo impegnati a farsi la guerra per l’oro nero (il petrolio) dimenticandosi di un bene più prezioso: la terra.