Paradossale. È l’unico termine utilizzabile per commentare da una parte le sempre più strenue e ricorrenti prese di posizione da parte di politici e politicanti in favore dell’accoglienza indiscriminata, dall’altra per guardare in faccia la realtà. In occasione dell’Assemblea parlamentare della Nato, il 27 ottobre scorso, l’onorevole Andrea Manciulli ha rimarcato che in linea generale non è possibile escludere che Daesh possa sfruttare il traffico migratorio al fine d’infiltrare proprio personale verso l’Europa. Il dato è emerso dall’analisi della relazione titolata “Espansione della minaccia di Daesh in Libia e nel Mediterraneo occidentale”. Il Califfato, in effetti, ha ancora un controllo di alcune aree della zona di Sirte che, se non gli permettono di avere il monopolio dei viaggi clandestini verso il nostro Paese, rappresenta comunque una testa di ponte dalla quale imbarcare i suoi miliziani sui barconi alla volta dell’Italia.
Ma le coste libiche non sono le uniche dalle quali i trafficanti che operano nel Maghreb imbarcano le migliaia di clandestini diretti verso l’Europa. L’analisi di Manciulli, arriva proprio nel giorno in cui si ha notizia che lo scorso 24 ottobre, in Tunisia, nel golfo di Hammamet, una persona ricercata per terrorismo da quelle autorità è stata fermata a bordo di un barcone, insieme ad altre 39 persone, mentre tentava la traversata alla volta di Pantelleria. E non è questo il primo caso in cui emerge il dato che le coste tunisine abbiano sostituito, in parte, quelle libiche come punti di partenza delle traversate verso l’Italia.
Nello scorso mese di agosto, infatti, nelle isole Kekennah, in prossimità di Sfax ed a soli 120 chilometri da Lampedusa, la Guardia nazionale tunisina fermò 4 terroristi in procinto di imbarcarsi clandestinamente veso le coste italiane. Tra gli arrestati, gli agenti riconobbero un ricercato per reati specifici, classificato come pericoloso, in possesso di documenti di identità falsi, oltre a un ex agente delle forze dell’ordine tunisine sul cui capo era pendente un mandato di cattura.
Il fenomeno delle infiltrazioni islamiste nel nostro Paese non rappresenta certo una novità se si pensa che sino dalla metà degli anni ’90 l’Italia concedeva l’asilo politico indiscriminato ai tunisini di Ennahda, partito composto per lo più da radicalisti islamici messo fuori legge dapprima dal presidente Habib Bourghiba e, quindi, perseguito anche dal successore Zin el Abidine ben Alì. Proprio gli stessi islamisti che posero le radici nella Penisola, aprendo luoghi di culto improvvisati nei quali in più di un’occasione vennero segnalate infiltrazioni di veri e propri terroristi, se non delle basi per traffici illeciti posti in essere per finanziare la jihad balcanica e, successivamente, quella algerina.
Proprio di questi giorni la notizia della chiusura di alcune moschee clandestine a Roma, che ha scatenato una protesta fomentata proprio dagli imam maghrebini e bengalesi che sentono sfuggir loro di mano il controllo delle comunità dei conterranei stanziati nella Capitale, che utilizzano i centri islamici più come luogo di ritrovo che di preghiera. Ovvio che il fenomeno non debba essere considerato come una generica criminalizzazione della comunità islamica, ma la sensazione di una sorta di sindrome da assedio tra la popolazione del Belpaese è sempre più sentita.
In sede di analisi, dunque, occorre considerare che le direttrici del flusso di miliziani infiltrati tra i clandestini siano da identificarsi nell’area libico – tunisina ed in quella balcanica, ritenendo oltremodo allarmante il dato che a fronte dei circa 6.000 tunisini partiti per arruolarsi nell’Isis, cifra che fa del Paese la principale fonte di foreign fighters, e dei 3.000 libici, nei paesi balcanici, Caucaso compreso, il dato raggiunge le circa 9.000 unità. Un esercito pronto ad operare sia tra le fila del Califfato in chiave prettamente militare, sia anche nella veste di guerriglieri urbani, infiltrati in Occidente, preparati anche ad azioni eclatanti.
L‘accoglienza che l’Europa ha voluto fornire a tutti gli immigrati che ormai da anni si riversano sulle nostre coste ed i nostri confini, ha semplificato il ruolo svolto dai mediatori e dalle organizzazioni dedite al traffico di esseri umani e, di fatto, ha aperto le frontiere a tutti, omettendo di distinguere coloro i quali fuggono dalla guerra da chi varca le frontiere semplicemente per cercare un improbabile sistemazione lavorativa o, comunque un luogo precario per “fare i soldi”, dedicandosi ad attività illecite agevolate da immigrati già presenti in modo stabile nei paesi europei.
La destabilizzazione delle nazioni nord-africane, quasi totalmente di credo islamico, ha dato il via all’invasione, più o meno organizzata, da parte di centinaia di migliaia di soggetti che già nei loro paesi di origine non avevano trovato una giusta collocazione nel contesto sociale di appartenenza. A ciò si aggiunga che il radicalismo islamico ha attecchito in vari strati delle popolazioni maghrebine, di fatto seguendo i canoni dell’islamizzazione dal basso, e potendosi quindi avvalere di manovalanza a basso costo per i traffici illeciti per il finanziamento delle cellule ed il reclutamento di nuove leve di jihadisti.