“Continuerò a spingere per proteggere i nostri figli dalla violenza armata e per riprogrammare un sistema di immigrazione al collasso”. È questo uno degli ultimi discorsi del presidente a stelle e strisce uscente.
Una ventata di cambiamento che sicuramente resterà nella storia. Insieme a Papa Francesco un simbolo di rinnovamento, di speranza. Un nuovo inizio. Una rivalsa per i “neri” come quella del film “Django” di Quentin Tarantino, ma nella realtà. Barack Obama è stato l’uomo del cambiamento, quel volto americano per tanti versi innovativo, ciò nonostante per tanti altri legato alla maschera dell’uomo politicamente più influente del mondo. Nel gioco pirandelliano delle parti, sul grande palcoscenico della politica internazionale Obama è l’uomo dell’uno, nessuno e centomila. Uno, come il primo presidente di colore della storia degli Stati Uniti e del premio Nobel per la pace, nessuno come i punti di contatto con il suo predecessore George W. Bush, centomila come le frange progressiste del suo mandato.
Barack è probabilmente il secondo, vero riformatore della storia americana. Il primo fu Ronald Reagan, emblema negli anni ’70 e ’80 della rivoluzione conservatrice; Obama è stato invece il presidente più al passo con i tempi, un uomo che ha saputo mostrare i mille volti dell’America, quello sicuro e forte, ma anche quello debole. Durante il suo doppio mandato non sono mancati momenti di tensione, problematiche da affrontare, ma il 55enne nato ad Honolulu è stato capace di affrontare tutte le sfide sempre a testa alta, sempre con il motto “Yes, we can” a portata di mano, a portata di rivoluzione.
Barack è stato il presidente per certi versi più popolare, senza dubbio il più sportivo, ed è per questo che è stato sin da subito simpatico al popolo. Tra canestri e home run, Obama si è ingraziato il popolo, soprattutto l’ampia fetta di popolazione d’origine afroamericana. Per i più anziani, Barack ha rappresentato il nipote ideale, per gli adulti un modello da imitare, per i più giovani un eroe senza mantello. Il cui super potere è sempre stato rappresentato dalla famiglia, dalle tre donne di casa, Michelle, Malia e Sasha. Ma non si parla solo di famiglia tradizionale, se consideriamo che Obama è stato il primo presidente nella storia degli Stati Uniti a parlare dei diritti degli omosessuali durante il discorso di insediamento. “Se è vero che siamo tutti uguali, allora l’amore tra ciascuno di noi deve essere trattato allo stesso modo”, un duro colpo per i tradizionalisti, un grande traguardo per un mondo ancora eccessivamente omofobo.
E se l’attenzione ai diritti degli omosessuali e dei transgender ha suscitato non poche polemiche, altrettante ne ha attirate nel 2009 la consegna ad Obama del Premio Nobel per la pace. Il riconoscimento che si consegna annualmente ad Oslo è stato riconosciuto al Presidente degli Stati Uniti “per il suo straordinario impegno per rafforzare la diplomazia internazionale e la collaborazione tra i popoli”, ma al di là di quanto riportato nella motivazione ufficiale, anche lo stesso Obama ha più volte ammesso che c’erano altri candidati più meritevoli del Nobel a causa soprattutto della sua nomina troppo recente. Le polemiche sono però state causate anche dalle strategie di politica estera volute dall’inquilino della Casa Bianca che, nonostante si sia impegnato in prima persona per riaprire le relazioni diplomatiche con Cuba, rimuovendo poi l’embargo alla nazione di Fidel Castro grazie all’intervento di Papa Francesco, sul fronte medio-orientale ha continuato una guerra logorante che continua a provocare inutili spargimenti di sangue.
Iraq e Siria continuano ad essere palcoscenici di guerra, e Obama ha probabilmente fallito tutti suoi obiettivi: non è infatti riuscito a sedare l’animosità dei paesi arabi, non ha smosso le acque dell’annoso conflitto israelo-palestinese, subendo anche l’esuberanza di grandi potenze come Cina e Russia. Quella che lui stesso a Manila ha definito la “dottrina Obama”, fatta di piccoli passi, ha certamente privato l’America della divisa da gendarme, ma al contempo non ha migliorato il complesso scenario politico internazionale.
Tra i fallimenti più grandi del doppio mandato, si evidenziano quelli legati alle libertà civili e all’uso delle armi. Dopo l’11 settembre, gli Usa hanno vissuto un’involuzione autoritaria, dovuta solo parzialmente alla fobia attentati, che neppure il presidente è riuscito ad arginare. Resta quindi ancora aperto e funzionante il carcere di massima sicurezza di Guantanamo, gli americani continuano ad essere “sorvegliati speciali” della National Security Agency che non è mai stata riformata e, aspetto ancor più grave, sono continuati i delitti effettuati con l’ausilio di droni in nazioni calde come Afghanistan, Pakistan e Yemen.
La crescente preoccupazione per la propria sicurezza ha alimentato il possesso di armi. Dopo le stragi di San Bernardino e della Sandy Hook Elementary School, l’opinione pubblica ha chiesto a gran voce una regolamentazione del possesso e dell’utilizzo delle armi, ma anche una forte limitazione alla vendita e ai criteri d’acquisto. La riforma del gun control resta quindi una delle grandi pecche del presidente Obama, che in merito aveva già confessato di nutrire “il rimpianto più grosso della mia presidenza”. L’onda emotiva anti-islamica si propaga in maniera sempre più veloce, ed è per questo che Barack, nonostante poco abbia potuto per arginare in maniera fattiva il sanguinoso integralismo di taluni gruppi armati, ha sempre posto molta attenzione al tema dell’immigrazione. “Noi siamo un popolo di immigrati, questo è il cuore del nostro carattere nazionale” aveva sentenziato Obama durante la naturalizzazione di 31 nuovi cittadini americani, ma nonostante questa ingiunzione favorevole e una serie di decisioni con cui si salvaguardavano i diritti dei migranti che per motivi di studio o di lavoro dimoravano negli USA, durante il suo mandato non è riuscito a far approvare dal Congresso la tanto attesa riforma dell’immigrazione.
In ambito economico, Obama è tornato ad intervenire, proponendo una serie di manovre di stampo keynesiano che hanno portato beneficio all’immagine del primo presidente afroamericano. Su tutte, la riforma sanitaria e la limitazione progressiva di emissioni inquinanti, ma anche le misure favorevoli alla grande industria automobilistica a stelle e strisce. Anche in ambito economico la “dottrina Obama” assomiglia a quella di un moderno Robin Hood, per un presidente che ha tolto qualcosa ai “ricchi” per darla ai poveri, ma i suoi detrattori hanno bollato queste manovre come facili acchiappa consensi. L’America resta un colosso con i piedi ben strutturati, ma con la mente tristemente manipolata dalle diverse lobby, e anche piccole grandi riforme che favoriscano nel quotidiano l’interazione del popolo non possono scalfire questo controllo.
Obama passerà il testimone ad uno tra Hillary Clinton e Donald Trump: chiunque sia il presidente numero 45, dovrà gestire gli Stati Uniti che ora appaiono sicuramente più orientati al progresso e alle novità, ma anche eccessivamente preoccupati dalla propagazione di eventi sanguinosi, sia all’interno che al di fuori dei confini nazionali. La fine del mandato del 55enne di Honolulu segnerà comunque un passaggio indelebile nel grande libro che narra la storia degli Stati Uniti d’America. All’inizio della sua “avventura” alla Casa Bianca, aveva affermato di aver scelto di fare il presidente “solo perché non poteva essere Bruce Springsteen”. Certamente Obama non potrà mai essere “The boss”, ma non smetterà di fare politica. Restando in tema musicale e parafrasando un noto brano dei Lynyrd Skynyrd, la porta della “Sweet Home Al-Obama” sarà sempre aperta. Nel bene o nel male, casa-Barack ha avuto un ruolo non marginale e senza dubbio non banale all’interno di un contesto mondiale in continuo mutamento e con allarmi sempre nuovi. Obama ha portato aria di cambiamento, soluzioni, innovazioni, incongruenze, pregi e difetti, ma anche – forse – maggiore rispetto. È stato chiamato “benedetto”, questo significa Barack in africano, e per certi versi l’America e il mondo hanno benedetto il doppio mandato del primo inquilino della Casa Bianca d’origine afroamericana. Tutto nel segno di un motto che è diventato un mantra: “Yes, we can“.